La storia dell’immigrazione in Inghilterra dalle West Indies (Giamaica, Trinidad, Brabados, Grenada etc), colonie ed ex colonie britanniche, non è stata solo evento di enorme portata sociale ma un elemento decisivo nell’evoluzione musicale e culturale del Regno Unito. I sudditi di paesi lontani portarono nuovi suoni, strumenti, mezzi espressivi, estetiche, istanze e bagagli culturali che da una parte furono assorbiti dagli autoctoni, mischiati, non di rado semplicemente sfruttati, dall’altra si svilupparono in altre direzioni, mantenendo salde le radici originali ma creando nuovi ambiti (vedi il british reggae o la scena ska della TwoTone Records a fine anni Settanta). Simbolico fu l’arrivo a Tilbury, sul Tamigi, della nave Empire Windrush, il 21 giugno 1948 con i primi caraibici alla ricerca di un lavoro e di una nuova vita in quella che per loro era a tutti gli effetti la madre patria, così come gli era stato insegnato a scuola. Si spostavano semplicemente in un’altra parte della nazione, o meglio dell’impero, tanto più vicini all’amata regina. Fu uno shock quando scoprirono progressivamente ma velocemente che, oltre a un clima pessimo e a dovere alloggiare in ricoveri di fortuna, non erano graditi dalla popolazione locale, tanto meno considerati alla pari. Rifiutati, guardati con diffidenza, osteggiati, considerati semplicemente «negroes, black o West Indians», si trovarono ad affrontare un razzismo sempre più esplicito sia nella vita quotidiana sia da una parte della politica istituzionale. Il tempo creò un’ulteriore frattura sociale e culturale. La prima generazione immigrata accettava soprusi, ghettizzazione e rinunce in vista di un previsto e auspicato ritorno nelle terre natie con un gruzzolo con cui vivere dignitosamente la maturità.

PROSPETTIVE DIVERSE
Diverse la visione e le prospettive dei loro figli e nipoti, nati e cresciuti in Inghilterra a cui non interessava «tornare» in quello che era per loro un suolo straniero, lontano e a sua volta diventato ostile e inconciliabile socialmente e culturalmente con l’ambiente in cui erano vissuti fin dalla nascita. Lo stesso drammatico dilemma che rese impossibile il più volte auspicato progetto di un ritorno in Africa dei nipoti degli schiavi americani. Fabio Fantazzini ha da poco pubblicato per Red Star Press/HellNation Libri un volume essenziale, Dread Inna Inglan, che si addentra alla perfezione e con uno spessore culturale di altissimo livello, in un contesto mai sufficientemente esplorato. Arricchito da mille dettagliatissime citazioni, particolari sconosciuti, nomi, dischi, episodi. La sua spiegazione al suddetto fenomeno è la perfetta, drammatica, sintesi dell’insormontabile disagio in cui si trovarono le seconde generazioni «black»: «La decostruzione e, in qualche modo, la distruzione del mito del ritorno è un passo fondamentale per la formazione delle identità delle “seconde generazioni” e, non secondariamente, per la loro mobilitazione politica. Nate o cresciute nel paese di emigrazione dei genitori, le nuove generazioni sono maggiormente recalcitranti all’idea di accettare quello scambio basato sulla manodopera a basso costo e sullo sfruttamento offerto ai primi migranti, rimettendo in discussione l’insieme delle loro condizioni sociali. La condizione di “ospite temporaneo” che rendeva più accettabile la rassegnazione rispetto ai sacrifici e alle difficoltà in vista di un futuro rimpatrio, viene eliminata rendendo le nuove generazioni più esigenti nell’ottenere come “diritti” quelle che fino ad allora erano state “concessioni”».
Gli attacchi alla popolazione nera a Notting Hill nel 1958 certificano ufficialmente l’esistenza del razzismo sul suolo inglese e diventano simbolo della disfatta dell’English Dream fino ad allora custodito nel cuore dagli immigrati che si accorgono definitivamente di essere considerati stranieri in patria da buona parte della popolazione britannica. È un razzismo ancora più subdolo che non si gioca più sul piano biologico ma su quello culturale, essendo le due parti connazionali. Come detto l’immigrazione caraibica porta con sé un patrimonio culturale unico che da una parte attinge da ancestrali radici africane, dall’altra parla un linguaggio nuovo, mutuato dalla fusione di quelle tradizioni con il folk locale. Arrivano i suoni dello ska, del calypso, del rocksteady che poi rallenterà progressivamente nel reggae. La scena mod, all’inizio degli anni Sessanta, accoglie senza problemi i figli dei migranti, cresciuti a scuola a fianco dei giovani modernisti che apprezzano anche molti particolari dello stile rudeboy, caratteristico della Giamaica, un perfetto mix di eleganza e rudezza stradaiola, assimilandoli nella loro estetica. Dalle West Indies arrivano anche musicisti che incominciano a formare gruppi e a produrre dischi, non di rado seguiti con attenzione da giovani bianchi che troveranno ispirazione per le loro appena nate avventure musicali, in procinto di esplodere nella scena beat.

MESSAGGI
I giovani Lennon e McCartney a Liverpool saranno spesso a concerti di calypso, Georgie Fame and The Blue Flames, seguitissimo dalla scena mod, inserisce brani ska nel repertorio oltre a una sezione fiati di musicisti giamaicani mentre nel 1964 My Boy Lollipop, pezzo ska di Millie Small, arriva in testa alle classifiche britanniche vendendo sei milioni di copie. La musica delle West Indies entra ufficialmente e prepotentemente nella cultura musicale inglese diventandone una componente essenziale. Assumendo caratteristiche che eludono il semplice aspetto ludico della fruizione di un genere musicale, come nel caso dei Sound System, come spiega ancora Fantazzini. «I sound system, come altri esempi all’interno della diaspora nera, assumono quindi la funzione di rappresentazione di un blocco sociale sistematicamente escluso dai vari organi del sistema. Si configurano come spazi di resistenza culturale rispetto all’esclusione e alla marginalizzazione della comunità nera da parte delle istituzioni. In secondo luogo acquisiscono maggiore rilevanza politica in quanto vettori comunicativi di messaggi (siano essi la cronaca di un evento o inviti alla ribellione) durante il picco del conflitto da istituzioni inglesi e controcultura nera. I sound system oltre ad essere un luogo di divertimento, sono uno spazio pubblico di scambio di informazioni e di discussione».
L’aspetto più interessante rimane il costante sviluppo che la comunità black inglese continua a produrre in termini musicali e culturali, dal continuo proliferare di band soul e rhythm and blues, ska e reggae ma soprattutto con la scena new jazz che sta costruendo un sound moderno, attualissimo, fresco, progressivo, tra i più interessanti in circolazione, guidati dalla personalità esplosiva di Shabaka Hutchings con nomi come Sons of Kemet, Ezra Collective, Moses Boyd, Nubya Garcia come principali rappresentanti. Un melting pot sociale e sonoro in cui confluiscono afroinglesi, africani, giamaicani, bianchi, figli dell’immigrazione delle West Indies, che mischiano jazz, rock, funk, elettronica, hip hop e tanto altro. Partito in quel lontano 1948 da qualche centinaio di speranzosi sudditi della regina che approdavano per la prima volta nella lontana capitale della loro patria, con il «sogno inglese» nel cuore e la sicurezza di essere accolti a braccia aperte da quelli che erano i loro connazionali. Non è andata così ma il riscatto c’è stato e ci ha consegnato un patrimonio di inestimabile valore.