La storia del jazz in Inghilterra è precocissima: già nel 1919, appena due anni dopo la pubblicazione del primo primo vero disco jazz, il 78 giri Livery Stable Blues, il sestetto bianco neworlinese che lo incide, The Original Dixieland Jass Band, viene invitato per una tournée nel Regno Unito dove tra l’altro registra Soudan (o Oriental Jass) che non solo risulta il primo brano jazz prodotto in Europa, ma diventa subito un grosso successo (secondo solo a Tiger Rag). I generi hot e dixie si diffondono in fretta a Londra e dintorni, creando schiere di imitatori di orchestre, combo e solisti americani, senza che però si sviluppi, nel tempo, una sonorità autoctona, come accade invece, già attorno al 1935, in Francia con lo swing gitan di Django Reinhardt e Stéphane Grappelli o in Italia con il ritmo sincopato (e semiclandestino) di Gorni Kramer.
Il jazz frequentissimo nelle principali città di Inghilterra, Galles, Scozia (pur con l’epicentro londinese come a tutt’oggi) all’epoca non viene però diffuso all’interno del vastissimo Impero e del neonato Commonwealth: in India, Australia, Nuova Zelanda, Africa equatoriale, Medio Oriente, il jazz, tra gli anni Venti e Quaranta, viene suonato da oscuri musicisti di madre patria per le élite bianche in luoghi esclusivi (ambasciate, consolati, club, ristoranti, circoli sportivi) a uso e consumo dei soli colonialisti. Fanno eccezione due soli territori: da un lato il Canada, che però risente dell’influenza statunitense e che proprio sul finire dello swing vedrà emergere il talento Oscar Peterson, tra i maggiori pianisti di ogni tempo; e dall’altro la Giamaica, dove in loco – soprattutto nella scuola Alpha Boys, da dove, più tardi proverranno jazzmen come Dizzy Reece, Monty Alexander, Ernest Ranglin, divenuti famosi in America – si elaborano inediti linguaggi sonori, arrivati, già nei due dopoguerra, assai prima in Gran Bretagna che negli Stati Uniti.
Un jazz post-coloniale si manifesterà invece da un lato in Nigeria, in Ghana, in Camerun solo negli anni Cinquanta e Sessanta con lo stile genericamente chiamato afrobeat di Edo Taylor, Manu Dibango, Fela Kuti, intrecciando sonorità bluesy, pop rock e persino latine e caraibiche; dall’altro in Sudafrica grazie a un singolare bebop in grado di assorbire il folklore locale, le tradizioni afroamericane e i nuovi flussi avanguardisti, soprattutto quando i maggiori esponenti – Dudu Pukwana, Mongezi Feza, Johnny Dyani, Harry Miller, Louis Moholo-Moholo, Julian Bahula e il bianco Chris McGregor che li coinvolge nell’orchestra Brotherhood of Breath – saranno esuli proprio in una Londra che prende le distanze dall’apartheid di un regime tiratosi fuori dal Commonwealth.

DA KINGSTON A LONDRA
Da sempre comunque la capitale britannica accoglie dalla Giamaica importanti artisti destinati a forgiare il cosiddetto Black British Jazz, come oggi viene chiamato grazie alla ricerca dell’Open University, tesa a sottolineare il contributo al jazz inglese degli emigrati da Kingston e dintorni: i jazzmen con i dreadlock oggi infatti risultano il 60% rispetto a tutte le altre etnie presenti in Gran Bretagna (musicalmente concentrati in zone quali Brixton e Harlesden benché i maggiori jazz club odierni come Jazz Cafe, Pizza Express Live, Ronnie Scott’s, 606 Club, Oliver’s Jazz Bar siano concentrati tra Soho e Camden Town).
Ci sono due date che segnano la prima grande stagione del «jamaican jazz» in procinto di divenire black british jazz: nel 1929 da Kingston sbarca a Londra il trombettista Ken Thompson, il quale agisce nella formazione di Spike Hugues e addirittura accompagna Louis Armstrong in tour europeo, entrando poi negli Emperors of Jazz, prima orchestra ufficialmente anglogiamaicana, fondata dal giovanissimo ballerino Ken «Snakehips» Johnson giunto nel 1936 dalla Guiana dopo un soggiorno artistico newyorkese dove ha modo di conoscere i grandi bandleader Duke Ellington, Jimmy Lunceford, Count Basie, che ne orienteranno le scelte musicali. Johnson a Londra assume la direzione dei Rhythm Swingers e poi della West Indian Orchestra, formata da notevoli strumentisti delle cosiddette Indie Occidentali: il sound risulta promettente e l’ingaggio al Café de Paris è un obiettivo raggiunto. Ma il bombardamento aereo nazista dell’8 marzo 1941, mentre Ken sta piroettando sulle note di Oh Johnny, Oh distrugge il locale, uccidendo 37 persone, fra cui tre danzatori, il sassofonista Dave «Baba» Williams e lo stesso Johnson a soli 26 anni. Sconvolto dalla morte del collega, Thompson, che pur dirige un’altra band, continua a esibirsi stancamente fino al 1954, quando si ritira dalle scene e inizia a lavorare nelle investigazioni private, salvo poi essere riscoperto e incitato nel 1985 (due anni prima di morire, ottantasettenne) a scrivere la propria autobiografia musicale, The Swing from a Small Island, utilissima per capire il ruolo di apripista di un vero e proprio genere, in cui sfilano via via Bertie King, Leslie George «Jiver» Hutchinson, Coleridge Goode e Wilton «Bogey» Gaynair. E il «genere» Black British Jazz viene forse segnato da un’altra data anche storicamente fondamentale per la storia multietnica del Regno Unito: nel 1948 un bastimento carico di lavoratori giamaicani attraversa l’Atlantico per fronteggiare la richiesta di manodopera nell’edilizia londinese; è la prima grande emigrazione dalle colonie (e non più viceversa) verso il centro di un Impero in via di dissoluzione sull’onda del pacifismo di massa: in quell’anno non a caso l’India dichiara la propria indipendenza grazie al Mahatma Gandhi. Tra i passeggeri di quella nave c’è anche Joe Harriott che in patria vanta un buon curriculum di moderno sax tenore in grado di captare e rielaborare le novità di Charlie Parker e compagni. Joe andrà molto più in là del bebop, pur non rinnegando le radici, facendo compiere al jazz inglese ben due rivoluzioni epocali ma isolate, purtroppo senza ricadute dirette sui colleghi statunitensi, un po’ come accade in Italia con le lungimiranti proposte di Giorgio Gaslini per anni «ristrette» all’alveo europeo. Harriott infatti preconizza la New Thing in anticipo di qualche mese sull’uscita dell’album Free Jazz, per rivolgersi quattro anni dopo al grosso pubblico con un world jazz ante litteram in cui celebra il connubio con il raga indiano, almeno due anni prima di alcune canzoni dei Beatles e degli orientalismi da parte del mondo hippie che reclama a gran voce il virtuoso del sitar Ravi Shankar. E il giamaicano Joe con il suo indo-jazz (condiviso con il pianista e compositore angloindiano John Mayer) è persino dieci anni avanti a John McLaughlin, tra i pochissimi bianchi nei gruppi del Miles Davis «fusion» (Bitches Brew, 1970), chitarrista elettrico e acustico, partecipe della svolta fusion anche nel Lifetime di Tony Williams e nella propria Mahavisnhu Orchestra, dove spicca la doppia batteria dell’afroamericano Billy Cobham. Tornato definitivamente in Gran Bretagna già a metà Seventies, McLaughlin crea un nuovo gruppo, Shakti, con tre solisti indiani anticipando le esperienze di world music multietnica di almeno un altro decennio.
Per molti versi Harriott e Mahavisnhu in fondo sono protagonisti a latere della Swingin’ London, come pure il saxman bianco Ronnie Scott che apre un night a proprio nome, facendovi suonare il gotha dell’hard bop, del mainstream e del free statunitense, talvolta presentandosi in jam session con i grandi maestri, in una metropoli austera, ma cosmopolita e tollerante che gli ormai sedimentati movimenti giovanili contribuiscono a modernizzare. Certo, la parola Swingin’ London richiama subito alla memoria rock, pop e psichedelia, che però non esisterebbero senza i ragazzotti della working class attratti dal blues degli ex schiavi; i teenager musicisti bianchi, nelle città del Regno Unito, sono fra i primi, più o meno consciamente, a eliminare i pregiudizi etnici del partito conservatore e del mondo adulto, costruendosi un sound generazionale – english blues, british beat, folk revival – ispirato via via a gospel, spiritual, blues rurale, r’n’b, rock’n’roll afroamericano, i cui esponenti, spesso ignorati o emarginati in patria, vengono invitati a esibirsi nei club, ai festival e persino alla Bbc. Sarà un do ut des che porterà ad esempio alcune band inglesi a registrare nei mitici studi della Chess o a esibirsi con i neri da una costa all’altra dell’oceano.

ALTRE DIREZIONI
Nonostante il fermento culturale, l’unica formazione mista è quella iniziale del quintetto Savoy Brown Blues Band, il cui disco d’esordio, Shake Down (1967) è composto da soli classici del blues nero: dal secondo album, quando però la band diventa «all white», i suoni vireranno verso l’hard rock. Procedimento inverso per John Mayall, storico esponente dell’english blues che chiamerà alla tromba e alla chitarra due noti jazzmen afroamericani, Blue Mitchell e Freddy Robinson per il seminale Jazz Blues Fusion (1970), già nel titolo futuribile e programmatico. Gli anni Settanta inglesi sembrano manicheisticamente ripartiti in tre direzioni inconciliabili: glam e prog simboleggiano un intellettualismo decisamente continentale (con parallelismi nella sola Europa), Canterbury School e improvised music restano la quintessenza di una sperimentazione anch’essa autarchica, la musica degli anglogiamaicani ormai vive di ska, reggae, bluebeat, dub, rocksteady. Saranno il punk e il post punk a scombinare i giochi, integrando diverse culture, se si pensa ad esempio a un gruppo come The Clash che in London Calling e Sandinista! integrano punk, reggae, combat rock e free jazz. Bisognerà aspettare gli Eighties prima che una nuova generazione di neri inglesi si ricordi di Harriott e si metta a suonare jazz: l’orientamento di solisti divenuti celebri anche fuori dai patrii confini – ad esempio Courtney Pine – risulta eterogeneo, benché accostabile a un comune sentire postmodernista che va oltre il free e il mainstream, ricorrendo talvolta a soluzioni extrajazzistiche, dal rock al funk, con un tocco precipuamente british.
Del resto, sull’entusiasmo del post punk, in quel generico calderone denominato new wave sorgono in Inghilterra, negli anni Ottanta, svariate tendenze di canzone jazzata, grazie a band interrazziali come Working Weeks, Rip Rig & Panic, Carmel, Blue Rondo a la Turk, Fine Young Cannibals e soprattutto la vocalist anglonigeriana Sade, la cui Smooth Operator entra nel repertorio della Brass Fantasy di Lester Bowie, alfiere del free chicagoano. Sul finire del decennio, a imperversare è un altro stile, favorito da molti dj – tra cui Gilles Peterson, anche collezionista di 33 giri di hard bop afroamericano – chiamato Acid Jazz, dove però le fonti ispirative riguardano piuttosto il funk, il soul e persino la prima disco music: anche qui sono molte le formazioni miste, tra cui Incognito, Mother Earth, Brand New Heavies, che indirettamente preludono a un piccolo boom della black music inglese, orientata però verso il nuovo r’n’b (o addirittura verso il rock), come dimostrano i successi dei gruppi Morcheeba e Shunk Anansie, del cantante Seal o per la techno del dj/vocalist Tricky, fino ad arrivare al caso di Amy Winehouse, bianca ebrea, ma circondata da band black e incline a cantare anche molti jazz standard.

CONSAPEVOLEZZA
A sua volta il ritorno di una nuova consapevolezza afroamericana che, nel jazz, con Wynton Marsalis e altri cosiddetti «young lions», prevede maggior conoscenza dei trascorsi jazzistici e minor esasperazione avanguardista, spinge anche i giovani solisti inglesi a dedicarsi a un jazz originale alla ricerca delle radici e del passato, nella consapevolezza di agire in realtà metropolitane complesse, dove è quasi d’obbligo una collaborazione multietnica, come avviene del resto ad esempio, dagli anni Novanta per il citato Pine, Orphy Robinson, Cleveland Watkiss, Julian Joseph, Steve Williamson, Ronny Jordan, Soweto Kinch, Denys Baptiste, Jason Yarde, tra le donne la sassofonista Gail Thompson, fra i gruppi i Blacktop, The Gary Crosby’s Jazz Jamaica, The Jazz Warriors; alcuni di loro assurgono al rango di stelle del jazz internazionale e cosmopolita senza mai rinnegare, anche sul piano artistico-esistenziale, i prodromi dell’identità afroinglese che porterà negli anni Dieci del XXI secolo a un’autentica teorizzazione del Black British Jazz anche grazie al progetto di ricerca presso la celebre Open University dal titolo appunto What is BBJ (Black British Jazz) attivo dal 2009 al 2011, finanziato dal programma Beyond Text del Arts and Humanities Research Council, allo scopo di indagare natura e significato del jazz prodotto da musicisti neri attivi in Gran Bretagna dal 1920 in avanti. Figli del BBJ oggi sono la Garcia, Hutchings, Ahmad, Kamaal, Williams, Lacey, Halsall, e almeno i collettivi United Vibrations, A.R.E. Project, Collocutor, Ahmed, The Ancestors, Sons of Kemet, Melt Yourself Down, i cui recenti dischi rendono ormai Londra al centro della scena universale e fanno del Black British Jazz qualcosa di più di un fenomeno, una corrente, un movimento o una scuola.

 

FUORI I DISCHI
Sono molti gli album usciti tra il 2010 e il 2020 che rappresentano al meglio il Black British Jazz: tuttavia il periodo di massima concentrazione creativa, a livello di pubblicazioni discografiche, dal momento che la scena live è ancora molto promettente, è concentrabile tra il 2016 e il 2018, gli anni in cui vengono presentati gli 8 titoli in questione, senza scordare almeno altri 8 notevoli opere – Melt Yourself Down Melt Yourself Down (Leaf, 2013), United Vibrations Galaxies not Ghettos (12tone C.I.C, 2011), Matthew Halsall On the Go (Gondwana Records, 2011), Collocutor Instead (On the Corner, 2014), Binker & Moses Duo Dem Ones (Gearbox, 2015), A.R.E. Project A.R.E. Project (Technicolour, 2017) – che cronologicamente precedono di poco l’affermazione del nuovissimo BBJ. Shabaka Hutchings & The Ancestors Wisdom of Elders (Brownswood, 2016)
È la conferma di un artista incredibile, in possesso di una vena sperimentale, eclettica, impegnata in continuo progress. È un disco quasi psichedelico, ma allo stesso tempo possiede anche un’influenza terrena, con un background africano. Stupefacente il modo con cui il saxman aggiunge le influenze sudafricane nella band di lavoro per così dire esterno. Siyabonga Mthembu dei The Brother Moves On canta alcune delle parti vocali principali, con una incredibile profondità timbrica, quasi a gorgheggiare da un luogo molto ancestrale. E la miscela di tutto questo alla fine è tanto fantasiosa quanto riuscita.
Yussef Kamaal Black Focus (Brownswood, 2016)
Per molti giovani ascoltatori resta il disco crossover che alla fine li convince a passare al jazz strumentale: il duo londinese del produttore/musicista Kamaal Williams – noto anche per il fortunato progetto house Henry Wu – e il batterista Yussef Dayes degli United Vibrations. Grazie a un legame musicale telepatico, il disco contempla rilassanti escursioni nel jazz funk e nell’hip hop, quasi si tratti di un soul arioso, dove tutto si giustappone con leggerezza tra ritmi breakbeat e jungle, ispirati alla macchina urbana contemporanea. Purtroppo il duo si scioglie un anno dopo l’uscita dell’album, lasciandosi alle spalle una «documentazione» che sta già facendo epoca e che presto potrebbe diventare «classica».
Yazmin Lacey Black Moon (Running Circle, 2017)
Vocalist di Nottingham, registra grazie all’iniziativa Future Bubblers di Gilles Peterson. Ed è progetto così ben realizzato da mostrarsi un ottimo viatico per capire una jazz singer personalissima, dato che nessun’altra canta più così. Il tono e il colore della voce non risultano mai troppo elaborati. Si tratta insomma di un disco intimo che porta il jazzofilo a sentirsi tranquillo e riflessivo durante l’ascolto, pensando a relazioni passate, presenti e future.
Ahmed New Jazz Imagination (Umlaut Records, 2017)
La band di Pat Thomas (pianoforte) è composta da Seymour Wright (sax), Joel Grip (basso), Antonin Gerbal (batteria) e con questo debutto reinventa la musica di Ahmed Abdul-Malik, trascurato pioniere del jazz arabo-americano già negli anni Cinquanta. È meraviglioso sentire un’avanguardista intransigente come Wright scavare nei brani di Abdul-Malik con tale gioia. Il senso del groove è quasi perverso, poiché Thomas e Gerbal si lanciano in una folle corsa dietro i motivi martellanti di Wright, facendo swingare il tutto in maniera convincente.
Nubya Garcia Nubya’s 5ive (Jazz Re:freshed, 2017)
La ragazza, secondo il critico Joe Mugges, suona il sassofono come se stesse ballando, per piacere, con una band affiatata, tutti a proprio agio con qualcosa di sciolto in funky (Lost Kingdoms) o complesso e ipercinetico (Red Sun) o ancora in dolce levitazione (l’incipit di Contemplation); ogni nota irradia gioia con un senso di opportunità multidirezionale. Si tratta di un album che si afferma alla grande, quasi teorizzando una nuova generazione in grado di essere fedele alla storia profonda della musica, riuscendo al contempo in un sound attuale che funziona hic et nunc.
Kamaal Williams The Return (Black Focus, 2018)
Gli spettacoli dal vivo sono fantastici, perché quando la band è sul palco, sta sperimentando ciò che le persone stanno vivendo, grazie alla quasi totale improvvisazione. Ed è così che nasce anche il disco. «Questo è quello che vedo nella mia testa – aggiunge il leader -. Ecco una tela bianca con i contorni, ragazzi tirate fuori i pennelli e aggiungiamo un po’ di colore. Amiamo tutti i grandi – Miles Davis, Herbie Hancock, John Coltrane, John Scofield – ma li abbiamo presi e capovolti, facendone della musica speciale. Non posso nemmeno chiamarlo jazz. È solo un’atmosfera, è fresca. È una cosa di Londra».
Sons of Kemet Your Queen Is a Reptile (Impulse!, 2018)
Al debutto con la leggendaria label Impulse!, la band di Shabaka Hutchings offre quasi una dichiarazione esaltante che risulta piena di energia ribelle. In polemica con la monarchia britannica, i «figli» dedicano ogni canzone dell’album a donne di colore di sinistra, tra cui la pantera nera Angela Davis, l’attivista anti-apartheid Albertina Sisulu e la bisnonna di Hutchings, Ada Eastman. Musicalmente, c’è il sassofono di Hutchings, la tuba di Theon Cross e una doppia batteria con il cast rotante di Tom Skinner, Seb Rochford, Eddie Hick e Moses Boyd. Tutti loro sfruttano un grande potere espressivo, usando ragga, dub e grime per alimentare un jazz originale, fremente e incisivo.
Aa. Vv. We Out Here (Brownswood, 2018)
Una bella sintetica antologia che fa da punto di partenza per il nuovo jazz londinese. Concepita dall’etichetta di Gilles Peterson e registrata in tre giorni al Fish Factory Studio nell’agosto 2017, la compilation di nove tracce riunisce molti attori della scena attuale, tra cui Moses Boyd, Nubya Garcia, Joe Armon-Jones e Shabaka Hutchings. La loro idea di jazz da un lato è fedele alla storia, dall’altro mostra spiccate aperture a influenze esterne. The Balance di Moses Boyd sovrappone elettronica a loop di batteria a cascata, come un promemoria di una fascinazione verso l’hip hop, mentre Brockley di Theon Cross vede il leader usare la tuba come un produttore elettronico potrebbe impiegare i bassi.