Pensate di fare campagna elettorale in un’Italia, dal Brennero a Roma, dove però ci sono solo tre milioni di abitanti, quasi metà dei quali vivono in graziose fattorie. Oggi ci sono 5 gradi sotto zero ma potrebbe fare tranquillamente -20° e i caucus, le riunioni degli elettori, si tengono di solito nelle palestre delle scuole, generalmente poco riscaldate.

La città più grande si chiama Des Moines e ha la stessa popolazione di Trieste, poi troviamo Cedar Rapids, con gli abitanti grosso modo di Latina, e Davenport, che ha esattamente lo stesso numero di cittadini di Arezzo. Gli altri sono sparsi in 92.600 fattorie e, come avrete capito, non ci sono città come Milano, Torino, Venezia, Bologna, Firenze e Roma. In compenso, ci sono circa 3.700.000 buoi e mucche. Questi tre milioni di abitanti (o meglio, i circa 250.000 di loro che partecipano ai caucus) ogni quattro anni suscitano l’isteria della stampa mondiale, con qualche buona ragione: sono una rotellina chiave nel bizzarro meccanismo per eleggere il presidente degli Stati uniti.

Qui comincia l’avventura

Perché l’Iowa è così importante? Non certo per il numero di delegati che elegge alle convention dei due partiti dove i candidati alla presidenza sono formalmente nominati: sono circa l’1% del totale. No, la vera ragione è che la campagna elettorale americana formalmente inizia il 1° febbraio, con l’Iowa e poco dopo con le primarie in New Hampshire; in realtà è iniziata oltre un anno fa con la cosidetta «primaria invisibile», quel lungo percorso in cui gli aspiranti alla nomination cercano finanziatori, cercano visibilità sui media, cercano il contatto con le lobby, si fanno vedere gli elettori.

Quindi nel 2015 i candidati si sono sforzati di “entrare in gioco” e di costruire le rispettive organizzazioni (in un paese con partiti deboli sono i politici a dover mettere a punto la propria macchina organizzativa, enormemente costosa), un requisito necessario per poter eventualmente competere nella lunga fase delle primarie (da febbraio a giugno) e poi nell’altrettanto lunga fase della campagna elettorale vera e propria (si vota l’8 novembre 2016).

In Iowa non ci sono schede o macchine per votare: si tratta di caucus, una combinazione tra la riunione di attivisti e l’assemblea di quartiere. Gli infreddoliti cittadini discutono e poi dichiarano la loro preferenza per uno dei candidati, in modi non sempre precisissimi: molti meeting finiscono con un «Tutti i sostenitori del candidato X in fondo alla sala a destra, tutti quelli che appoggiano il candidato Y, qui a sinistra, per favore».

Non a caso, nel 2012, i caucus furono attribuiti inizialmente a Mitt Romney, poi dopo un nuovo conteggio i repubblicani decisero che in realtà era stato l’ex senatore Rick Santorum a prevalere, sia pure per soli 34 voti su 121.503 partecipanti.

Il problema è che se il vincitore viene conosciuto settimane o mesi dopo la cosa non ha più alcuna importanza: Iowa e New Hampshire servono per creare momentum, ovvero slancio, una dinamica favorevole nel sostegno di attivisti, dirigenti del partito, finanziatori. Sono i due test necessari all’establishment dei grandi partiti per decidere chi appoggiare tra i candidati alla nomination.

Un territorio da battere palmo a palmo

Per questo i politici che vogliono correre per la presidenza passano gran parte dell’anno precedente alle elezioni battendo palmo a palmo uno stato assai poco rappresentativo dell’America nel suo complesso: nel 2011 Santorum passò 266 dei 365 giorni dell’anno in Iowa; Michelle Bachmann fece 200 visite nello stato, per ottenere un misero sesto posto nelle primarie repubblicane.

Dal punto di vista del processo elettorale, il ruolo assunto da Iowa e New Hampshire è estremamente negativo. Il primo problema è che il meccanismo delle primarie, in sequenza invece che tutte nello stesso giorno, di fatto trasforma questi due stati in una porta stretta da cui i candidati devono necessariamente passare: chi crede di poter saltare questi appuntamenti, come l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani nel 2012, si ritrova ignorato dagli elettori, che concentrano la loro attenzione su quelli che stampa e televisione presentano come i protagonisti del “duello”, quasi sempre due soli candidati per ciascun partito.

Nel 2008 la competizione tra i democratici fu tra Hillary Clinton (che vinse in New Hampshire) e Barack Obama (che vinse in Iowa) mentre fra i repubblicani emersero brevemente Mike Huckabee (primo in Iowa), Mitt Romney e John McCain: alla fine fu quest’ultimo (vincitore in New Hampshire) a prevalere.

Più sostanziale la questione che l’Iowa è uno stato assai diverso dal resto degli Stati Uniti, per esempio le minoranze sono fortemente sottorappresentate: gli afroamericani sono il 3,4% contro una media nazionale del 13,2% e gli ispanici sono il 5,6% contro il 17,4%. L’agricoltura e l’allevamento sono molto più importanti che altrove (l’Iowa sta nel cuore delle grandi praterie) e lo stato trae grandi vantaggi dalle regole federali che prescrivono di mescolare la benzina con l’etanolo tratto dai cereali: non a caso il popolare governatore repubblicano Terry Branstad ha attaccato uno dei candidati, Ted Cruz, perché sarebbe contro il business dell’etanolo.

Per vincere in novembre

L’Iowa, quindi, è un pessimo test per avviare il processo elettorale, soprattutto considerando che la dinamica della corsa alla presidenza negli ultimi anni è stata dominata dai primi risultati ottenuti dai candidati: nel 2008 la competizione tra Obama e Clinton proseguì fino a giugno ma la regola generale è che dopo le primarie di febbraio rimane un solo candidato per ogni partito perché i media, i finanziatori e, soprattutto, l’establishment dei due partiti si compattano attorno al nome percepito come quello “giusto” per vincere in novembre.

Quest’anno potrebbe andare diversamente, ma i repubblicani sono già orientati a restringere la scelta ai due aspiranti meglio piazzati in Iowa, Ted Cruz e Donald Trump, benché entrambi lontani dall’establishment del partito. Ma Trump riuscirà a tradurre in voti il suo vantaggio nei sondaggi?