«Stavo cercando di farlo per me stesso, per quello che volevo e di cui avevo bisogno nella mia musica. Io ‘volevo’ cambiare strada, ‘dovevo’ cambiare strada per me stesso, per continuare a credere e amare quello che stavo facendo». È Miles Davis che nella propria autobiografia Miles (1989) parla di Bitches Brew, il disco che cinquant’anni fa lo rende celeberrimo presso la stessa audience che, in quell’anno, a fine estate, su un’isoletta della Manica, si esalta per Joan Baez e Leonard Cohen, i Doors e gli Who, Joni Mitchell e Jimi Hendrix, i Moody Blues e i Jethro Tull, i Ten Years After e gli Emerson Lake & Palmer. Il 1970, l’anno, appunto di Bitches Brew, a inaugurare i Seventies del jazz e del rock.
Suddividere la cultura, l’arte o la musica (in questo caso) per decenni è un’utile scorciatoia per gli studiosi di professione – gli storici in particolare – ma oggettivamente fittizia nella realtà dei fatti, alla luce dei forti dinamismi suscitati dal fermento creativo, intellettuale, politico delle singole discipline. In tal senso, magari non cruciale come il 1959 o il 1968, l’anno 1970 resta senza dubbio un momento di svolta per il jazz, anche per un solo album, grazie all’uscita di questo doppio lp non solo a nome di Miles Davis, ma che, in copertina, si avvale della dicitura New Directions in Music, quasi a rimarcare coltranianamente un ulteriore «passo da gigante» nei confronti della personale ricerca che, dalla fine degli anni Quaranta, anticipa e sviluppa via via il cool, l’hard bop, il modale, persino il free (senza dichiararlo).

AGLI ANTIPODI
Ora con Bitches Brew i critici del 1970 parlano di jazz rock o di electric jazz (solo alla fine del decennio preferiscono il termine fusion) per sottolineare l’incontro fra due suoni apparentemente lontani, diversi, antipodici, per gusto, retroterra, anagrafe dei musicisti e dei fruitori. Per meglio capire l’importanza di Bitches Brew occorre rivelarne il contesto soprattutto americano così come, nel jazz, si palesa attraverso esordienti, nuovi gruppi, dischi pubblicati dai tanti anziani maestri ancora in scena e da qualche giovane pronto a battere sentieri alternativi o integrati alla «scoperta» davisiana. Il 1970 jazzistico resta dunque l’anno del debutto su vinile a proprio nome di tre futuri leader (e accompagnatori) dal giovane Dave Liebman (ben presto inserito nella band forse più radicale di Miles) ai trentenni contrabbassisti Charlie Haden e Gary Peacock (poi con il Keith Jarrett che, alle tastiere, accompagna Davis per tutto il 1970).
Ma l’anno di Bitches Brew viene oggi ricordato anche per il battesimo di nove inedite formazioni dai buffi epiteti, quasi a scimmiottare le nomenclature delle band prog o psichedeliche; ecco quindi The Circle, Liberation Music Orchestra, Weather Report, Oregon, M’Boom Percussion, Brotherhood of Breath, London Jazz Composer Orchestra, Funkadelic, Earth Wind & Fire; la metà di esse, direttamente o meno, ha a che fare con Bitches Brew. Per i dischi invece l’elenco sarebbe lunghissimo a considerare come detto prima i numi tutelari e le promesse talentuose: New Orleans Suite (Duke Ellington), Afrique (Count Basie), The Awakening (Ahmad Jamal), Red Clay (Freddie Hubbard), Nuits de la Fondation Maeght (Albert Ayler) sono capolavori stilisticamente estesi dall’hot al free, mentre vicini al «sound Bitches Brew» possono ritenersi i coevi Spaces (Larry Coryell), My Goals Beyond (John McLaughlin), Ego (Tony Williams), Mwandishi (Herbie Hancock), Moto Grosso Fejo (Wayne Shorter), Concerto Retitled (Joe Zawinul) tutti del «giro davisiano», oltre a At Fillmore (Don Ellis), Them Changes (Ramsey Lewis), Alive! (Grant Green) diversamente elettrici e Third (Soft Machine), Elastic Rock (Nucleus), Solar Plexus (Ian Carr) ossia il jazz rock inglese.

INTRECCI
Nessuno però, in quel 1970 ricco anche di stimoli pop, folk, etno, funky, si avvicina all’essere originale, complesso, stratificato, persino liberatore e rivoluzionario come Bitches Brew, unico nel porre, mediante una sentita complicità, la questione dell’andare oltre, dello sperimentare ad libitum, dell’intrecciare i generi, del cambiare il volto e l’ossatura soprattutto alla musica statunitense. Che Davis, il Prince of Darkness, faccia tutto questo per guadagnare soldi – geloso delle tante star miliardarie grazie a stupide canzonette o a rock mal suonato, come dice lui – o perché sinceramente convinto dall’artisticità delle proposte mutuate da un’azzardata ricerca costruita in poco tempo, resta un falso problema, risolto con quanto detto in apertura dal protagonista medesimo.
E benché oggi esista tutto o quasi su Bitches Brew – in particolare i due libri Bitches Brew. Genesi del capolavoro di Miles Davis (2009) di Enrico Merlin e Bitches Brew. Il capolavoro di Miles Davis che ha rivoluzionato il jazz (2019) di George Grella – bisogna ancora rilevare il vero elemento trainante di un long playing che, appena uscito negli Usa, il 30 marzo 1970, fatica a entrare in classifica, nonostante le agevolazioni dovute sia al battage pubblicitario sia all’uso di un pezzo sfumato per il juke-box (unicum nella carriera del trombettista, salvo post mortem un singolo con Easy Mo Bee). Il balzo in avanti di Bitches Brew, nelle hit parade, giunge dopo il 20 agosto, quando mezzo milione di hippie hanno la possibilità di vedere e ascoltare il trombettista che, in settetto, è invitato al Festival di Wight, comprendente svariate tipologie rock, ma solo lui alla testa di una jazz band con Bennie Maupin al sax soprano, Keith Jarrett e Chick Corea alle tastiere, Dave Holland al basso elettrico, Jack DeJohnette alla batteria e Airto Moreira alle percussioni.
Ed è una band leggermente diversa dal gruppone di Bitches Brew dove si alternano tre batterie (DeJohnette, Lenny White, Billy Cobham), diversi strumenti a percussione (Airto, Don Alias, Juma Santos), un sax soprano (Shorter), un clarinetto basso (Maupin), tre piano elettrici (Corea, Zawinul, Larry Young), due bassi (Holland e Harvey Brooks), una chitarra elettrica (McLaughlin), in soli sei brani lunghi dai 4 ai 27 minuti,nell’ordine Pharaoh’s Dance, Bitches Brew, Spanish Key, John McLaughlin, Miles Runs the Voodoo Down, Sanctuary.

SVILUPPI
Tra Wight e il doppio ellepì registrato nello Studio B della Columbia Records a New York dal 19 al 21 agosto 1969 (più una session il 28 gennaio 1970) le differenze sono minime: Miles sa guidare, con cenni del capo, un insieme coevo e motivato nell’esporre le «nuove direzioni musicali» intraprese via via con ritmi binari scarnificati, con una timbrica rumorosa per via degli strumenti elettrici (o elettrificati), con uno sviluppo compositivo informale sull’onda delle sovraincisioni, con una sequela di improvvisi assolo anomali rispetto a modale, bebop, free, a loro volta ispirati dai battiti e dai riff convulsi della cultura rock (ma anche del soul e del r’n’b, e persino della neoavanguardia dotta). Le note di Bitches Brew, irriproducibili sullo spartito, sono un lavoro polimorfo che, come sostenuto da molti esegeti (e ammesso pure da Miles) guarda in contemporanea a Jimi Hendrix, James Brown, Ornette Coleman, Sly Stone e Karlheinz Stockhausen, rivelando comunque altri tre segni fondanti: una personalissima singolarità, forse anche oltre il concetto di jazz rock; un ulteriore approfondimento verso un profilo identitario afro (la giungla urbana di cui parla Walter Mauro già nel 1973); una comunicazione multidisciplinare irrobustita ad esempio in chiave paratestuale, in primis con la doppia immagine della copertina a quaderno, dipinta dal pittore francotedesco Meati Klarwein.
«(…) Io dirigevo come un maestro – rivela Miles Davis – una volta cominciato a suonare, e buttavo giù un po’ di musica o dicevo a questo e a quello di suonare le cose differenti che cominciavo a sentire a mano a mano che la musica cresceva, che diventava un insieme. Era una cosa molto compatta e molto sciolta allo stesso tempo (…) Mentre si sviluppava, sentivo qualcosa che si poteva sia estendere sia tagliare. Così questa registrazione fu uno sviluppo del processo creativo, una composizione vivente».