Rosy Bindi ha lasciato la politica attiva ormai da quattro anni, ma sentendola parlare non sembrerebbe. La passione è quella di sempre, così come la nettezza dei giudizi. È tornata a vivere nella casa di famiglia a Sinalunga, vicino a Siena, qualche scappata a Roma, ma di rado.

Cosa le è mancato di più in questi anni?
Non mi è mancato nulla. Ho fatto la scelta di ritirarmi serenamente, non ho neppure più preso la tessera del Pd. Quella casa sembrava non avere più bisogno di me, facevo fatica a riconoscermi, mancava l’aria. Non si può essere contemporanei di tutte le epoche, e la mia stava finendo.

Oggi che epoca è?
I leader politici quarantenni vivono di immagine. Ma la buona politica è la sostanza che deve manifestarsi. Resto sempre impressionata dalla camicie perfettamente stirate di Di Maio e dall’esibizione delle felpe di Salvini.

Come ha passato questo tempo?
Sono stata tutt’altro che ferma, persino nel lockdown non c’era giorno che non fossi invitata a intervenire a incontri da remoto. E poi subito dopo ho ripreso a viaggiare: incontri, convegni. Penso, leggo, scrivo, seguo le cose che mi appassionano.

Cosa ha ritrovato della sua vita che era rimasto in disparte negli anni di battaglia?
La mia famiglia, a partire dalla mamma: dal 2018 ho potuto passare vicino a lei i suoi due ultimi anni di vita, prima che se andasse nel 2020. E poi ho ritrovato la dimensione spirituale: l’impegno massacrante aveva sacrificato la vita interiore, lo studio, le relazioni umane. Stare immersa nella vita quotidiana aiuta a capire meglio i problemi delle persone, persino l’amore per la politica si è depurato da quelli che Tina Anselmi chiamava i «cascami» che ti si appiccicano addosso. Senza questi aspetti, anche di competizione, si coglie meglio la grandezza della politica, che è innanzitutto amore per la tua città, il tuo paese, e per il mondo.

In questi giorni l’Italia è celebrata, anche dall’Economist, come un paese di successo. Le pare un giudizio veritiero?
Mi fa piacere che il mio paese goda di stima internazionale e venga portato ad esempio nella lotta alla pandemia. Credo però che questi giudizi più che alla situazione reale dell’Italia siano riferiti all’affidabilità e all’autorevolezza di Sergio Mattarella e Mario Draghi: un giudizio meritato, in giro per l’Europa di personalità di questo livello non se ne vedono tante. Ma il paese resta avvolto dai problemi, c’è una grande sofferenza, le disuguaglianze sono cresciute, il dato demografico è impressionante. Le questioni poste dai sindacati non sono peregrine: nessuno ci assicura che la ripresa si traduca in lavoro stabile e più giustizia sociale.

Eppure lo sciopero generale è stato circondato da silenzio, imbarazzo, ostilità.
Non è mai una scelta indolore, per nessuno. Rispetto la scelta autonoma dei sindacati, ma trovo comprensibili le incomprensioni che ci sono state, anche nel centrosinistra. Mi preoccupa invece l’insensibilità sulle questioni poste, che vanno ascoltate. E lo deve fare il centrosinistra.

Non lo fa?
Questo è “il” problema del centrosinistra e non di adesso: a destra sento proposte chiare che non condivido, a sinistra non sento le idee e le proposte forti che vorrei condividere.

Come valuta questi primi mesi di gestione Letta?
Ha ereditato una situazione complessa che tale resta. Le elezioni comunali sono andate bene anche per demerito degli avversari. Però quella di Enrico è una leadership riconosciuta e autorevole, se guardiamo gli altri leader attualmente in campo lui di certo non sfigura. Per ora ha dato segnali importanti sui giovani e sullo ius soli, che non sono temi da ztl. Il punto è che per ricostruire il centrosinistra il Pd deve superare se stesso e l’idea di un’alleanza come sommatoria di partitini con diritto di veto, costretti a stare insieme dal sistema maggioritario.

Superare se stesso vuol dire che il Pd si scioglie? Non è un rischio?
Ma no, nessuno deve sciogliersi. Ma per fare una cosa nuova non basta dire “venite a casa mia”, devi metterti in discussione: fuori ci sono associazioni, cattoliche e non, persone che stanno sulle frontiere del lavoro, degli immigrati, della povertà.

Vede la forza per un processo così ambizioso?
Se hai il coraggio di osare puoi ottenere dei risultati, altrimenti resti soffocato dagli equilibrismi interni. Col 20-21% non vai da nessuna parte, bisogna rifare la sinistra in Italia.

Nel 2015 lei è stata tra i più entusiasti dell’elezione di Mattarella al Quirinale. Ha confermato le sue aspettative?
Ero sicura che sarebbe stato un ottimo presidente. Si è trovato in uno dei momenti più difficili del Dopoguerra e in questo contesto ha dato il meglio di sè. Non so quanti altri ci sarebbero riusciti.

Cosa l’ha colpita di più di questo settennato?
Mi ha colpito che questo gli sia stato riconosciuto da tutto il paese, ceti sociali e culture politiche molto diversi e lontani. Questo è il risultato più bello.

Tra poche settimane l’Italia resterà senza Mattarella. E forse senza Draghi a palazzo Chigi. È un rischio?
Ho sempre ritenuto che Draghi dovesse restare al governo, ma di fronte al rischio di una spaccatura tifo perché faccia il Capo dello Stato.

Da molte parti si fa anche il suo nome…
Se fossi parlamentare voterei per me o per Draghi (sorride). Credo sia fondamentale che il mondo per 7 anni abbia la certezza che lui c’è, è un punto di riferimento per l’Italia e per l’Europa. Il Parlamento farebbe bene a chiederglielo in modo unitario.

E poi si va a votare?
Guardi, questo rischio non c’è. Mi creda.

Vede il rischio che il centrodestra più Renzi si elegga un presidente di parte, con una maggioranza risicata?
Certo che lo vedo, spero che il centrosinistra se ne sia accorto.

La stupisce vedere Renzi sempre più vicino al centrodestra?
Assolutamente no. Ha detto che non sta con Letta e Conte, dunque fa il gioco degli altri. Dice che non vuole i populisti di sinistra? Evidentemente si trova a suo agio con i populisti di destra.

Lei invoca una nuova sinistra e poi loda Draghi. Non c’è contraddizione?
Draghi sta guidando una maggioranza anomala in una fase di emergenza. Ma i fondamentali della persona sono repubblicani, europei, democratici.

Torniamo a lei. Qual è stata nella sua vita politica la più grande soddisfazione?
Ne ho avute tante, dal ministero della Sanità alla guida della commissione Antimafia. Mi sento appagata, piena di gratitudine.

E il più forte dispiacere?
Le incomprensioni con la Chiesa ai tempi dei Dico. Per me laicità significa essere fedeli al Vangelo e alla storia, alla chiesa e alla comunità civile. Vedere che si è dubitato di me mi ha fatto soffrire. E poi..

Dica.
Nelle comunità politiche dove ho vissuto ho avuto spesso l’impressione di non essere accolta fino in fondo.
Lei fu protagonista dei Dico nel 2007. Oggi ci sono le unioni civili, le coppie omosessuali si sposano. Che effetto le fa?
Sono contenta di aver dato un piccolo contributo affinché iniziasse questo cammino di libertà delle persone che si vogliono bene.

Qual è il suo vizio peggiore?
Il mio più grave difetto è arrabbiarmi, non riuscire a trattenermi. Scalfaro me lo diceva sempre: «Nel nostro mestiere serve autocontrollo». Negli anni credo di aver imparato. In politica dovremmo donarci alle nostre comunità con la stessa capacità di condivisione della vedova lodata da Gesù perché aveva dato tutto quello che aveva senza trattenere nulla per sè. Io spero di aver trattenuto poco o nulla per me.