Nella sua dichiarata propensione per il politicamente scorretto (militarismo, nazionalismo, ripulsa dei miti liberali e ammirazione per uno Stato forte), Zachar Prilepin è un seguace di Eduard Limonov, il cattivo maestro per eccellenza, reso celebre anche in Europa dal romanzo che gli ha dedicato Carrère. Ha partecipato alle guerre in Cecenia nelle file dei corpi speciali della polizia militare russa, ha frequentato la facoltà di Lettere a Niznij Novgorod; ha militato nel Partito nazionalbolscevico. Autore di romanzi (tradotti in Italia dalla Voland), che mostrano un robusto talento narrativo, Prilepin introduce nel panorama letterario russo, a lungo dominato dallo sfottò postmoderno e da una esasperata ibridazione dei generi, una nota dissonante, riproponendo certi stilemi del romanzo realista ad alta tensione.
Il punto di vista sulle vicende narrate è affidato perlopiù a un giovane «qualunque», dalla postura tutt’altro che eroica. Un po’ per caso, in un susseguirsi di azioni sconsiderate e di pulsioni erotiche, il giovane «qualunque» si ritrova nell’epicentro di vicende politiche cruciali e drammatiche: la sanguinosa guerra nel Caucaso in Patologie; la rabbiosa militanza politica dei giovani emarginati di provincia in San’kja: l’istituzione del primo campo di lavoro sovietico nell’ex monastero dell’isola Solovki nel Monastero.
Il nostro incontro è avvenuto all’Università di Cassino, dove lo scrittore russo è stato invitato a tenere una conferenza.

A ben vedere, e Cechov lo ha mostrato meglio di tutti, nelle nostre biografie non accade perlopiù nulla. Nei suoi tre romanzi maggiori, invece – «Patologie», «San’kja» e «Il monastero» – i protagonisti si ritrovano in situazioni che poco hanno a che fare con la monotonia dell’esistenza quotidiana: la guerra, un attivismo politico esasperato, il gulag. È una sua declinazione particolare del genere pulp, oppure lei crede che lo «stato di eccezione» permetta di comprendere meglio, o di fraintendere meno, il senso della vita?
Ho seguito la strada del minimo sforzo. Non ricordo quale romanziere russo ha detto che, per comporre i primi romanzi, lo scrittore non può che depredare la propria giovinezza. E nella mia giovinezza non ho fatto altro che imbracciare le armi e partecipare a manifestazioni politiche radicali. Quando cominciai a scrivere, ne ero incalzato, direi ricattato: la cosa migliore era metterle a frutto, senza edulcorarle. In seguito, però, ho scritto testi che condividono la predilezione cecoviana per ciò che è infimo e inappariscente. E ora non credo più che un racconto debba cominciare con un vulcano in eruzione o un attentato terroristico. Tolstoj e Dostoevskij ci insegnano che un plot poliziesco o bellico può essere una potente leva narrativa, a condizione di mostrare, che la vita reale è tutt’altro. In Patologie questo «altro» sono i ricordi d’infanzia e la storia d’amore: ricordi e storia in cui l’azione latita. Nel romanzo San’kja, un giovane militante nazionalbolscevico cerca invano di tornare al villaggio d’origine: anche qui non c’è traccia di avvenimenti degni di nota. Nel Monastero ci sono vicende picaresche, ma in gran parte del testo abbondano discussioni astratte, sul senso della rivoluzione o sull’esistenza di Dio. Eppure, proprio in queste chiacchiere senza spina dorsale, mi sembra trapeli l’intensità parossistica di quella esperienza incomparabile a tutte le altre che è il gulag.

Nella Russia post-sovietica, forse più a lungo che altrove, la scena letteraria è stata dominata dal cosiddetto postmodernismo. Lei dice di trovarsi agli antipodi. È in corso una (ennesima) svolta neo-realista?
Sì, dall’inizio del nuovo secolo si riconoscono di nuovo i buoni diritti del realismo. In precedenza, negli anni Ottanta e Novanta, ha prevalso una sorta di involontario surrealismo. Il caos politico, sociale, etico in cui versava la Russia era gremito di fatti fantasmagorici e deliranti. Un esempio: conquistarono autorevolezza e popolarità i sedicenti guaritori di verruche per via telematica. Surrealista, o emulo del teatro dell’assurdo, sembrava qualsiasi telegiornale dell’epoca. La letteratura postmodernista russa si è ricavata un posticino al sole parodiando le dottrine socialiste. Da Vladimir Sorokin a Vladimir Vojnovich, tutti si sono divertiti a prendere in giro il retaggio sovietico. Nel giro di qualche anno, questa moda cominciò a disgustarmi. La mia nausea era peraltro condivisa: esordì allora una generazione di scrittori che coltivavano una forma inedita di realismo, oppure utilizzavano le tecniche della decostruzione postmodernista per criticare la deprecabile situazione in cui si trovava la Russia. Un caso tipico di uso improprio e urticante del postmodernismo è stato quello di Michail Elizarov: il suo primo romanzo, Unghie, è ambientato in una casa di cura per i bambini minorati mentali. In Germania si affrettarono a premiarlo con una prestigiosa borsa di studio, pensavano evidentemente che fosse importante sapere fino a che punto i bambini russi sono dei degenerati. Ma quando Elizarov pubblicò un nuovo romanzo intitolato Pasternak, nel quale canzonava spietatamente i miti del liberalismo, lo rispedirono in Russia giudicando quel tipo di postmodernismo decisamente sgradevole. Ho ricordato il caso di Elizarov per sostenere che la nostra generazione di neorealisti è in grado di servirsi, se lo ritiene opportuno, di tutto l’armamentario postmodernista. So bene come si smonta e si rimonta una narrazione; ma questa capacità non mi sembra gran cosa. Solleticare e intrigare il lettore non è poi così difficile.

Ha ancora senso, oggi, riproporre la questione dell’identità nazionale? Persino Dostoevskij, nell’orazione su Puškin tenuta poco prima di morire, parlò del carattere paneuropeo e universale della cultura russa.
Basta esaminare i testi rilevanti della letteratura contemporanea per accorgersi che molti dei loro pregi derivano dalla descrizione accurata, a volte ossessiva, dei tratti peculiari, non generalizzabili, dell’ambiente in cui sono stati scritti. Accade nei romanzi di Orhan Pamuk, dell’egiziano Ala al Aswani, di Julian Barnes, di Houellebecq. E di Jonathan Franzen, per me il miglior scrittore vivente. In tutti questi casi, dare valore a ciò che è locale e contingente è la vera chiave per accedere a questioni universali e dunque condivise. Quando mi domandano a chi possano interessare vicende specificamente russe, sono tentato di ricordare quante pagine di Tolstoj sono intrise di atmosfere, idiosincrasie, allusioni refrattarie all’esportazione. E proprio per questo diffuse dovunque. La cultura russa è molto ricettiva, ma non mimetica. Si nutre dell’esperienza europea, ma la manomette e la altera. Che male c’è, del resto, nel concepire una forma di universalità basata sull’introiezione trasformatrice, anziché sulla riproduzione allargata di un uomo medio globalizzato, cioè di un americano?

Nel suo romanzo «Il monastero» sembra che lei abbia voluto rappresentare il campo di lavoro forzato di Solovki, istituito negli anni Venti, come un anello di congiunzione tra la grande fioritura artistica del periodo prerivoluzionario, la cosiddetta «età d’argento», e la civiltà sovietica dei decenni successivi.
La rivoluzione d’Ottobre aveva inizialmente scommesso sulla possibilità di una letteratura proletaria. Già nei primi anni Venti, l’esperimento mostrò la corda. Gli scrittori che diventarono classici del realismo socialista e dirigenti dell’apparato culturale non erano certo operai, ma intellettuali «compagni di strada». La famigerata RAPP (Associazione russa degli scrittori proletari) esercitò un potere a volte spietato fino al 1932. Poi fu soppressa, e Stalin fece fuori uno per uno i suoi esponenti. Michail Bulgakov, leggendo ogni mattina sul giornale che un altro satrapo della RAPP era stato fucilato, non sapeva se piangere o ridere. Ma di fatto il regime aveva puntato già da tempo su quei letterati che si erano formati nell’«età d’argento»: Majakovskij, Gor’kij, Aleksej Tolstoj e via elencando. Credo che l’espressione «nazional-bolscevismo» abbia un significato letterario più che politico. Nei testi di Aleksej Tolstoj e di Sergej Esenin si celebrò in quel periodo lo sposalizio tra il bolscevismo e il conservatorismo russo. Nel mio romanzo Il monastero, questo passaggio si manifesta nel comportamento di Ejchmanis, il dirigente di Solovki. Sebbene abbia due lauree, Ejchmanis è un proletario e deve la sua carriera interamente al regime sovietico. Proponendosi di fare del gulag un modello in miniatura della futura Unione Sovietica, ben presto si rende conto di poter contare soltanto sulla cultura dell’altroieri: tant’è che nel teatro della prigione non si fa che mettere in scena il repertorio russo ottocentesco. Anziché respingere rudemente l’eredità prerivoluzionaria, la politica culturale del regime sovietico fu abbastanza sagace da appropriarsene ai propri fini. Certo, alcuni nomi dell’«età d’argento» furono cancellati. Nikolaj Gumilev fu fucilato perché partecipò a una congiura antisovietica. Cvetaeva, Merežkovskij e Gippius emigrarono. Ma ora è chiaro che gran parte degli esponenti della cultura prerivoluzionaria continuò a operare in seno al regime socialista. Per questo gli intellettuali della mia generazione, nati e cresciuti nell’Unione Sovietica, sono nonostante tutto i nipotini dell’«età d’argento».

Nei discorsi dei personaggi del «Monastero» si avverte un lavoro di ricostruzione quasi archeologica della lingua parlata all’epoca, per giunta da esponenti di ceti sociali molto diversi.
È stato un esercizio masochistico cui mi sono sottoposto volentieri. Per dare la parola a un esponente dell’intellighencija, ho letto molti diari d’inizio secolo; per il gergo militare, ho consultato libri di memorie di ufficiali e soldati; per cavarmela con le chiacchiere dei cosacchi, mi sono servito a piene mani dei dizionari del loro argot. Tentando di ricostruire la lingua parlata dagli abitanti del gulag, mi sono convinto che molta sottocultura sovietica, in particolare quella della malavita, si è formata proprio lì, a Solovki. Ce ne è giunta un’eco attraverso i film di Michail Šukšin e le canzoni di Vladimir Vysockij. Anche certi modi di pensare e di esprimersi dell’intellighencija sovietica sono legati a doppio filo all’esperienza di detenzione a Solovki. Studiare la vita in quel gulag alla fine degli anni Venti significa individuare radici e presagi del tempo nostro.

Quando esordì, lei era un bastian contrario, un critico impietoso dell’ideologia dominante in Russia negli anni Novanta. Non la turba il fatto che oggi le sue opinioni combacino con quelle della maggioranza del paese? Non è imbarazzante nuotare con la corrente, essere in sintonia con chi detiene il potere?
Per molto tempo ho avuto l’impressione di vivere in un territorio occupato, nel quale il discorso pubblico era monopolizzato da chi sbandierava opinioni che giudicavo odiose. Ero rassegnato a restare per sempre nel mio sottosuolo, intonando una canzone destinata a quattro reietti come me. È vero, da qualche anno la mia posizione è diventata «popolare». Ma non mi illudo: il clima cambia in fretta. Da un lato, la Russia professa i valori del conservatorismo di sinistra, legati a un ideale di stato sociale forte; dall’altro, resta borghese, oligarchica, discriminatoria. Una parvenza di stato sociale persiste soltanto grazie al petrolio. Se questa risorsa si esaurisse, a essere spolpati sarebbero i poveri, non certo i ricchi.