L’agricoltura intensiva mette sotto pressione le risorse naturali del pianeta. Anzi, le distrugge: è tra i principali responsabili della perdita di biodiversità e del cambiamento climatico. Eppure, l’agricoltura, da qualche decina di migliaia di anni, è indispensabile alla sopravvivenza dell’umanità. Quel che la rende rovinosa è stata la sua trasformazione da attività primaria, basata sull’uso attento delle risorse rinnovabili, diversificata a seconda del terreno, del clima, degli ecosistemi, in un sistema produttivistico industriale che richiede grandi input di energia fossile e sostanze chimiche e che produce enormi quantità di rifiuti inquinanti. I sistemi tradizionali, dove ancora praticati, sono invece basati sulla circolarità: rispetto alle risorse impiegate poco o nulla viene considerato scarto, tutto è utile per ri-alimentare il sistema. Così ciò che viene consumato è nello stesso tempo ricostituito, e quando i processi sono in equilibrio l’ambiente e l’ecosistema assorbono l’impatto della produzione senza conseguenze negative.

Sulla possibilità di garantire cibo per la popolazione mondiale senza compromettere i sistemi di resilienza terrestri è stato di recente pubblicato uno studio del Potsdam Institute for Climate Impact Research. Sulla base di una rappresentazione dettagliata di quattro limiti interconnessi (integrità della biosfera, modifica del sistema terrestre, uso dell’acqua, flussi di azoto), un gruppo internazionale di undici scienziati dimostra che oggi quasi la metà della produzione alimentare globale dipende dal superamento dei limiti. Se questi fossero invece rispettati, il sistema così com’è potrebbe provvedere una dieta bilanciata (in media 2.355 kcal per capita al giorno) solo per 3,4 miliardi di persone. Un dato di per sé sconfortante e tale da far pensare che la rovina sia ineluttabile. Invece lo studio dimostra anche che, se si adottasse un profondo cambiamento produttivo e delle modalità di consumo, un’agricoltura rispettosa dei limiti del pianeta potrebbe bastare per 10,2 miliardi di persone. I requisiti chiave sono: una differente distribuzione dei terreni coltivati, una migliore gestione dell’acqua, la riduzione dello spreco alimentare e un cambiamento della dieta verso una minore quantità di alimenti di origine animale. Ma altre soluzioni sono indicate. Questo studio è importante. Per la prima volta sono identificate le possibili soluzioni, e calcolato il loro l’impatto se messe in pratica.

Ad esempio, aumentare l’efficienza dell’uso dell’acqua, anche piovana, nell’irrigazione può triplicare o quadruplicare le rese delle colture in sistemi oggi a basso rendimento. Effetti positivi ancora maggiori sembrano fattibili ottimizzando a livello globale l’utilizzo del territorio, e preservando la fertilità dei terreni; dimezzare lo spreco potrebbe generare cibo per un miliardo di persone. A patto che, raccomandano gli scienziati, si abbandonino subito le pratiche dannose e ci si impegni per un’inversione di tendenza. Chi ci governa ha quindi le informazioni e le soluzioni per rimediare al disastro, ma tante voci devono levarsi con forza perché siano finalmente al primo posto nell’agenda politica.