È brutale, la sentenza del processo di appello che assolve sei ragazzi imputati di stupro di gruppo, già condannati in primo grado a quattro anni e mezzo, un fatto avvenuto a Firenze nel 2008. Brutale non solo perché dice che il fatto non sussiste, cioè che la ragazza ha sempre consentito a quanto avveniva, ma per la motivazione. Che usa psicologia disinvolta e cattiva letteratura per inchiodare la ragazza a «un’energica reazione».

Successiva ai fatti, «evidentemente per rispondere a quel discutibile momento di debolezza e fragilità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto consumare e rimuovere».
Insomma, il fatto che la mattina dopo la ragazza abbia denunciato sarebbe stato il tentativo di riscatto di una il cui racconto «configura un atteggiamento sicuramente ambivalente nei confronti del sesso». In altri termini, è il modo di vivere della ragazza che è stato indagato, e che fornisce la motivazione dell’assoluzione. Insomma, se l’è cercata. Una facile, una che ci è stata. Il collegio giudicante si offenderà di parole così riduttive, rispetto a una sentenza che si misura nelle sottigliezze di un’interpretazione. «Un rapporto di gruppo che alla fine nel suo squallore non avrebbe soddisfatto nessuno, nemmeno coloro che nell’impresa si erano cimentati», è forse la frase-capolavoro di questa sentenza, rimasticamento pruriginoso di cinema e miti letterari male assimilati, per approdare alla nebbia indistinta: nessuno è colpevole.

È la scena che crea confusione. La protagonista non rappresenta «univocamente una predestinata vittima di violenza», come ha detto uno degli avvocati dei condannati che hanno ricorso in appello. Una ragazza libera, dal comportamento sessuale libero. Bisessuale, femminista, militante lgbt. Una serata in discoteca, dove si è bevuto molto, dove c’era già stato del sesso, tra la ragazza e uno degli imputati poi assolti. Dove c’era perfino un toro meccanico, su cui si era esibita, mentre beveva molto, tanto da essere «malferma sulle gambe», e all’uscita portata a braccia, dal gruppo. Tanto da suscitare domande, sia di una coetanea che degli addetti della sicurezza. A cui lei ha risposto cercando di rassicurare, che andava tutto bene. Insisto con i dettagli, che possono risultare urtanti e fastidiosi, perché sia chiaro cosa vuol dire sostenere la libertà di una donna. Il confine dovrebbe risultare limpido. Essere disponibile a giochi sessuali, sbronzarsi, avere relazioni plurime, non essere cioè una ragazza «perbene», rende di per sé una donna consenziente, una che non può dire: no, non voglio?

È stato molto citato, giustamente, «Processo per stupro», il film di Loredana Rotondo del 1979. A me viene mente anche «Sotto Accusa», il film del 1988 di Jonathan Kaplan con Jodie Foster nella parte della vittima e Kellie McGillies che interpreta l’avvocata che la difende. Una storia, a sua volta ispirata a un fatto vero, molto simile a quello di Firenze. Penso che nel nostro paese – e non solo – ci sia molto bisogno di capire cosa sia la libertà femminile. Non coincide con l’essere irreprensibili. Anzi. E agli uomini, ai ragazzi non si chiede di esserlo. La sessualità è un terreno aperto, i giochi e le relazioni possibili sono molteplici, non tutto è rubricabile nel bon ton e nel buon gusto. Eppure. Sei ragazzi intorno a una coetanea, un’amica per uno di loro, ubriaca. È così ovvio trovare tutto normale? Risolverla con: ci sta?

Dice la sentenza di Firenze: «E qui davvero non vi è alcuna cesura apprezzabile tra il precedente consenso e il presunto dissenso della ragazza che era poi rimasta in “balia” del gruppo (“ho proprio staccato la testa, ho pensato di essere morta…, non pensavo più, non guardavo più”)». È il passaggio chiave, brutale e crudele. Perché di fronte alla scena di una donna, ubriaca, con sei uomini, in macchina, non la ascolta.

Anzi irride, rimarcando poi la mancanza di sufficienti segni di violenza.
Ieri sera, a Firenze, proprio alla Fortezza da Basso, c’è stata una manifestazione. Con lo slogan: «La libertà è la nostra fortezza».