«Da giovane, a Surabaja, mio padre ha visto i “sigari volanti” dell’aviazione giapponese bombardare e ridurre a un cumulo di macerie la casa di famiglia … è stato torturato … e rinchiuso in una cassa di ferro a cuocere a fuoco lento sotto il sole rovente … ha tradito il fidanzato giapponese di sua sorella … ha indicato la strada agli Alleati nel torrido Oosthoek dove i ribelli indonesiani venivano interrogati appesi per le caviglie mentre lui faceva da interprete e batteva a macchina … è saltato su una mina con un autoblindo ed è precipitato in un burrone per ottanta metri … ha ritrovato un amico Indo che si era sparato in testa dopo aver scoperto che la sua ragazza era stata a letto con un soldato olandese … ma la cosa peggiore per lui è stata quando, durante la Prima azione di polizia, gli si è rotto il manico della chitarra». Questo l’incipit dell’Inquisitore di Giava (traduzione Mario Corsi, Mondadori, pp. 468, € 15,00) pubblicato in Olanda nel 2016 dal sessantacinquenne Alfred Birney, schivo maestro di chitarra, di cui l’opera ha sancito la consacrazione.

La scrittura mima il caos della guerra, nel contesto delle ex Indie Orientali olandesi, al momento dell’invasione giapponese nel 1942 e negli anni convulsi che seguirono. Al centro c’è un soggetto prototipico – il padre di chi scrive – in un primo tempo testimone inerme della violenza che devasta il suo mondo, ma successivamente capace di influire potentemente sulle vite di coloro che da lui dipendono: i prigionieri interrogati per conto dell’esercito olandese inviato nelle Indie dal 1946 al 1949, poi – dopo l’emigrazione nei Paesi Bassi – la moglie e i figli. Una volta approdato in Europa, questo padre riverserà la propria furia per la mancanza del riconoscimento atteso, nei pestaggi dei familiari. Intanto, «samurai della penna», riversa le proprie memorie e le lettere di protesta a istanze ufficiali.

Gli Indo delle colonie
Se l’incipit è una mise en abyme del libro, l’accordo finale fa approdare a una stasi il flusso impetuoso della prima frase. Iniziano allora le querele e i rimproveri: la pars filii. L’anticlimax, dove c’è l’episodio relativo al collo spezzato della chitarra, annuncia il tono sarcastico del figlio che rivolge al padre un’arringa a tratti canzonatoria ma per lo più furibonda, coprendolo di insulti, incolpandolo per aver perpetrato sulla moglie e la prole gli abusi subiti e inflitti in guerra.

Da giovane, il padre padroneggiava con disinvoltura una quindicina di lingue. Erano le lingue dei dominatori vecchi e nuovi, dei popoli (arabi, cinesi) che prima dell’arrivo degli europei commerciavano con l’arcipelago, spinti dal vento buono: lingue dotate di prestigio culturale, letterario e sociale, lingue franche, lingue regionali e anche un pidgin come il petjo, lingua di contatto tra colonizzati e colonizzatori, presente negli strati più profondi dell’identità linguistica. Un plurilinguismo che era espressione della sfaccettata identità culturale del padre, di cui l’esibita olandesità era problematica come per molti altri eurasiatici, che si trovavano intrappolati nelle gerarchie di un sistema coloniale costruito su differenze funzionali al mantenimento del sistema stesso, catturati in una condizione inafferrabile e spesso invivibile di «olandesi ma», «giavanesi ma», leali alla madrepatria coloniale, e al contempo relegati in uno spazio «altro».

Degli Indo il padre dice: «erano cittadini di terzo rango, paria». Lui un paria in effetti lo era, per il sistema burocratico coloniale, in quanto figlio illegittimo di un facoltoso uomo Indo e di una donna cinese, ciò che spiega la sua incoercibile volontà di essere olandese con tutti i crismi, l’ossessione rispetto all’atto di nascita, e la delusione una volta sbarcato da apolide nei Paesi Bassi, dove il multilinguismo della società coloniale venne ridotto in un corsetto monolingue.

Il posizionamento identitario del padre si solidifica nel momento in cui viene assoldato dall’esercito olandese. Gli è consentito diventare interprete per un’unità speciale di marine olandesi, e ne approfitta per estorcere confessioni con metodi violenti, ritrovandosi aguzzino di giovani uomini a lui molto vicini. Il suo plurilinguismo diventa dunque un’arma di sopraffazione, funzionale al potere coercitivo. Il personaggio dell’interprete-boia di Birney è una figura di separazione e violenza, che esercita la sopraffazione nella società coloniale in disfacimento: da qui, forse, la scelta di Mondadori, che nel titolo ha preferito L’inquisitore di Giava, all’originale Interprete. Opposta, invece, la scelta per un altro recente romanzo di successo, Deutsches Haus di Annette Hess, tradotto come L’interprete.

A Francoforte, nel 1963, il personaggio di Eva si trova a tradurre il polacco di un testimone di Auschwitz, scoprendo gli orrori della Shoah, di cui i genitori e la società intera le hanno taciuto. È messa di fronte alle lingue della memoria traumatica e alla loro problematica traduzione, a causa di reticenze, autocensure, usi linguistici a lei solo in parte comprensibili, provenienti da un passato plurilingue e transnazionale annientato. Sia in Birney che in Hess leggiamo di una generazione su cui pesano i traumi subiti, e commessi, da chi li ha preceduti. Inoltre, la presenza del personaggio dell’interprete nell’universo diegetico di queste opere è anche una spia di come entrambi i libri si interroghino sulla possibilità di «tradurre» la (post-)memoria traumatica della Seconda guerra mondiale.

Una terza istanza
L’opera di Birney è un container ipermoderno di pratiche discorsive, tenute insieme dalla figura titanica del padre e dal rancore del figlio, a cui si aggiungono le versioni della madre e, infine, del gemello del narratore. Non diversamente da tanti suoi commilitoni, di cui negli ultimi anni sono emersi egodocumenti legati a azioni di polizia e guerre coloniali perpetrate oltre il tempo massimo, il personaggio del padre scrive un memoriale, che inserito all’interno dell’opera, come i ricordi della madre, fa funzionare il figlio da istanza di intermediazione: quella «terza istanza» che può anche essere rappresentata da una traduzione, della quale la psicoanalista francese Janine Altounian sostiene la necessità per superare un trauma.

Quanto al lettore, la giustapposizione delle varie versioni gli consente di sostare sui confini dei vari posizionamenti identitari e memoriali dei protagonisti, saturando le cicatrici della memoria privata dei singoli e di quella pubblica olandese, ancora incapace di rielaborare i traumi legati alla fine della secolare vicenda coloniale in Asia.