Una legge «troppo barocca che in qualche modo mira a depotenziare la volontà del paziente». Il testo licenziato ieri dalla Camera non soddisfa pienamente Chiara Lalli, bioeticista e saggista che da pochi mesi ha pubblicato per Mondadori il suo ultimo libro, scritto a quattro mani con Gilberto Corbellini: «Bioetica per perplessi». Le modifiche apportate ieri in Aula, poi, con gli ultimi emendamenti che vanificano le Dat quando «manifestatamente inappropriate» agli occhi dei medici, sono per la filosofa «una trappola meravigliosa». Obiezione di coscienza come per la legge 194? «No, peggio», risponde Chiara Lalli.

Professoressa, era davvero utile e necessaria una legge sul fine vita?
Utile sì, necessaria forse anche. Perché il proposito ideale era di evitare la variabilità dei casi. Basti ricordare cosa successe a Mario Riccio, il medico anestesista che aiutò Piergiorgio Welby a liberarsi dal respiratore artificiale. Riccio fece tutto nella piena legalità ma, in mancanza di norme specifiche, fu indagato dalla procura. Una legge però può anche peggiorare lo scenario, e infatti la Camera ha per fortuna rigettato gli emendamenti che avrebbero voluto reinserire il divieto di rifiutare l’idratazione e la nutrizione artificiale. Una buona legge dovrebbe secondo me invece semplicemente riordinare i principi cardine che esistono già.

Si riferisce alla deontologia professionale dei medici?
Non solo. Mi riferisco a principi fissati nella Costituzione, come gli articoli 13 e 32. La Carta Costituzionale è più forte della deontologia.

Il testo licenziato dalla Camera però dà molto peso alla deontologia e alla professionalità del medico. È troppo sbilanciato in questo senso?
Sì, rischia di esserlo. Il problema è che c’è una parte politica di questo Paese che dà molto peso, anche da un punto di vista linguistico, al cosiddetto «abbandono terapeutico». Se io rifiuto un trattamento, il medico non mi sta abbandonando, mi sta rispettando. Più si paventa il rischio dell’abbandono terapeutico più si va nella direzione opposta a quella che rende una legge sul fine vita utile e necessaria. Nel dominio medico la bussola deve essere puntata solo sulla volontà del singolo individuo.

Quale sarebbe secondo lei la miglior legge possibile?
Una legge molto liberale, molto ampia ma poco tecnica. L’unica cosa da ribadire è la risposta ad una sola domanda, che è sempre la stessa: chi decide? L’impianto normativo, e l’enorme serie di implicazioni che esso comporta, cambia a seconda di come si risponde a questa domanda. Se lo si mette al servizio della volontà del paziente, il provvedimento può fare del bene, altrimenti può fare molto molto male.

Secondo il M5S, il testo che passerà ora al Senato ha di fatto legittimato l’obiezione di coscienza che vanifica le Dichiarazioni anticipate di trattamento. Secondo lei si rischia di tornare nel vicolo cieco della legge 194?
No, peggio. Qui la questione è ancora più tortuosa perché se è vero che nella maggior parte dei casi le Dat indicheranno i trattamenti a cui non si vuole essere sottoposti nella fase terminale dell’esistenza, a questo punto si dovrebbe rispondere alla domanda: cosa significa in questo caso fare obiezione di coscienza? Che mi si infili un tubo contro la mia volontà? Vede, è questo il paradosso, anche se poi certamente il medico potrebbe ritrovarsi dinanzi a scelte più attive, come quella di staccare un macchinario. Ma il medico non ha il ruolo del prete o del tutore: deve consigliare le terapie ma poi deve rispettare la scelta del paziente, anche se questa appare conraria alla sua coscienza.

Il controbilanciamento previsto dal testo, però, prevede che la struttura sanitaria deve essere in grado di rispettare le disposizioni del paziente, al di là della coscienza del singolo medico. Ma non è così anche per la legge 194?
Certo, c’è il rischio di inapplicabilità perché possiamo sempre ipotizzare che nella struttura X nessun medico sia disposto ad applicare una determinata Dat.

Prevede più lavoro per i tribunali? Nel senso di vedere tanti altri casi Eluana Englaro…
Spero di no, ma se la legge venisse confermata in Senato con questa formulazione molti casi potrebbero finire davanti a un giudice. Esiste anche un problema più generale nel rapporto tra medico e paziente che è la cosiddetta medicina difensiva: in tante circostanze i medici tendono a fare cose che magari non farebbero ma agiscono per paura di essere denunciati. E allora: chi dobbiamo difendere di più, il paziente o il medico?