Era, ed è, un patrimonio. Ed è stato giusto «spenderlo», ovvero condividerlo, con chi a questo è più interessato, ovvero il pubblico. Giovanna Daddi e Dario Marconcini sono da sempre un patrimonio del nostro teatro. Uniti nella vita e nell’arte hanno percorso e intensamente vissuto assieme ogni loro esperienza, dal teatro ragazzi all’atmosfera barbiana e grotowskiana di Pontedera. Senza rinunciare a tante altre sollecitazioni e fascinazioni provenienti da altre scritture e altri luoghi: dal cinema sperimentale di Paolo Benvenuti al lungo sodalizio (fatto di feconda accoglienza e confidenza) col genio «burbero» di Jean Marie Straub, che presso di loro ha a lungo vissuto, e forse anche rasserenato, la sua leggendaria e programmatica «non riconciliazione».

Per non parlare delle letture colte, mai modaiole, che con loro sono rivissute in palcoscenico, da Pinter a Thomas Mann, da Hermann Broch a Peter Handke. La vita così ricca di Dario e Giovanna ha trovato ora modo di rispecchiarsi proprio sul palcoscenico, vera camera di compensazione della loro vita. Anzi, come dice il titolo, Quasi una vita (andato in scena al teatro Era, e dal 10 al 12 maggio al Teatro di Scandicci, per Fabbrica Europa).

Dove non sono approdati i loro fatti privati (anche se chi li ha conosciuti non tarda a riconoscervi certi loro gusti e posture), ma una corposa riflessione, fatta di continue visioni e interrogativi, sulla vita che il teatro può costruirci e restituirci. Aiutati in questa operazione da Roberto Bacci regista e da Stefano Geraci drammaturgo, oltre che da quattro attori che servono proprio a verificare gesti, ritagliare contorni, amplificare echi.

Ma certo sono i due protagonisti, i «soggetti» del racconto, a condurci in questo cammino dentro la loro storia, dando al teatro quel potere magico di «conoscenza» e scavo rispetto al mondo e alla vita. Con due sole citazioni d’autore, un Faust e il Pinter di Night. Quest’ultimo in particolare risuona ambiguo e ricco come raramente si è visto e decifrato, anche se aderisce come un possibile specchio a una storia dei protagonisti che deve pur essere stata privatissima quanto piena d’ebbrezza.

Perché il teatro è la loro totale autobiografia, ma lontana dagli acciacchi e dai rimpianti di altri racconti sull’attore «da vecchio», da Bernhard ad altri scrittori che ce l’hanno narrate. Pone piuttosto nuove domande a chi la vita l’ha pienamente vissuta, addentrandosi ora nelle zone d’ombra, nei momenti irrisolti, nei dubbi finali. Senza avere nulla di necrofilo o compassionevole, ma col tono elegiaco con cui ripercorrere gesti, scelte, amori per svelarne finalmente i contorni, per accettare ora le domande che ponevano e cui prima non si voluto o potuto rispondere. In un tono sempre leggero, facile da partecipare per il pubblico, fino all’emozione, fino al condividere quel fascino leggendario del teatro, che ognuno può ritrovare. Grazie anche a creature come Giovanna e Dario. Una visione che nel loro graduale sottrarsi della scena finale, fissa come per sempre un metodo (e una delicatezza di vita, e una ricchezza di sentimento), davvero ineguagliabili.