Chi ci aveva parlato, ma anche solo chi la conosce, sapeva che Rosy Bindi non avrebbe abbassato la testa, e che anzi le forti pressioni che in questi giorni sono arrivate dal suo partito gli avrebbero fatto l’effetto opposto a quello sperato. Ieri la presidente non ha deluso. Ha riunito il plenum della commissione antimafia per mettere a verbale l’aggrovigliata vicenda della cosiddetta lista dei 16 impresentabili. Ma prima di spiegare di non aver agito di testa propria ma su mandato dell’ufficio di presidenza, ha fatto una premessa durissima: «Prima ancora che infondate, le accuse di aver dato vita a un’iniziativa sul piano umano volgare e diffamatoria, sul piano politico infame e sul piano costituzionale eversiva sono semplicemente inaccettabili». E sia chiaro: sono le accuse che le ha rivolto il suo partito, soprattutto nelle persone di Ernesto Carbone, ultrà renziano ma quel che più conta Matteo Orfini, il presidente del Pd che le aveva detto «di chiedere scusa alla Costituzione». C’è di più, per la presidente: «Le offese che ci sono state rivolte non sono un fatto personale ma toccano il cuore delle istituzioni».

Bindi ricostruisce la vicenda « frutto di un’iniziativa largamente condivisa dai gruppi parlamentari». Nessun desiderio di «creare indebite black list» ma solo «quello di assolvere ad un compito stabilito dalla legge». Ha rivendicato per gli organi della commissione «imparzialità e correttezza» e stretta aderenza «al codice di autoregolamentazione approvato all’unanimità il 23 settembre 2014». Sono stati oltre 4300 nomi vagliati, 77 le persone con 95 procedimenti segnalati dalla Dna e riscontrati dalle 28 procure interpellate. Bindi attacca anche il vincitore delle regionali campane Vincenzo De Luca, che ha annunciato querela contro di lei: «È singolare che chi lamenta la violazione della Costituzione e presentando denunce penali, sebbene si sia candidato a cariche politiche regionali, non riponga la stessa fiducia né nella massima istituzione rappresentativa, il Parlamento, né nelle informazioni acquisite presso l’Autorità giudiziaria». Le considerazioni finali sono amare: «La politica non è riuscita a fare un’opera di pulizia preventiva al suo interno» ma questo non basta «a far venire meno un preciso dovere giuridico».

Da una parte, con Bindi, si schierano i 5 stelle, Sel (ma con posizioni più garantiste), e il vicepresidente Claudio Fava, indicato come vero regista dell’«operazione impresentabili». Fava, prima di entrare nella riunione, ha attaccato il Pd: «Vorrebbe che l’Antimafia tornasse ad essere un inoffensivo circolo dei civili, dove si discute sui codici di autoregolamentazione ma non si verifica se siano mai stati applicati. E se proprio questa verifica va fatta, che si faccia dopo: a impresentabili presentati, a indecenti eletti».

Dall’altra parte, e cioè contro la presidente, si schiera il suo Pd. Non in maniera compatta. Il giovane turco Aloessandro Naccarato sta con lei, fa invece da pontiere il capogruppo Franco Mirabelli. Ma lo scontro è soprattutto un affare interno al Pd. Nel pomeriggio di ieri infatti aveva cominciato a circolare la voce di un documento contro Bindi sul mancato rispetto delle norme del codice di autoregolamentazione che il Pd stava preparando per la riunione della sera. Una mossa provocatoria che si sarebbe trasformata nella miccia capace di far esplodere la commissione. Il capogruppo Franco Mirabelli si è affrettato a smentire: «Una discussione su come agisce l’Antimafia in casi come questi va fatta, il sistema non funziona», ma «non stasera» e comunque «ragioniamo in termini positivi». Con tutti i guai che il Pd deve affrontare in queste ore – tenuta della maggioranza al senato, ddl scuola, regole interne per tenere a bada la minoranza – infilarsi anche in un scontro all’Ok Corral con Bindi e le sinistre Pd che la sostengono – in realtà molto svogliatamente – sarebbe suicida. Anche se la resa dei conti è inevitabile: i rapporti anche personali fra la presidente e gli ultrà renziani ormai sono ai minimi termini. E c’è chi racconta che durante la riunione di martedì, dopo l’attacco alzo zero di Ernesto Carbone, Bindi abbia risposto: «Quello che ho da dire lo dirò davanti al plenum della commissione. Di tutto il resto invece parleremo in tribunale».