Bimbi-boia, l’ultima frontiera dell’Is
Stato islamico Destinati a uccidere o a morire
Stato islamico Destinati a uccidere o a morire
Costretti a convivere con il terrore fino a diventarne essi stessi protagonisti, trasformati in boia senza scrupoli né pietà. Le immagini che i fanatici della jihad mettono in rete li ritraggono a volte con lo sguardo fisso nel vuoto, la pistola in mano in attesa di uccidere la vittima che gli è stata assegnata. Oppure indifferenti mentre mostrano la testa mozzata del «nemico» che un padre folle gli ha messo tra le mani prima di postare fiero la foto su Twitter. Ma anche usati loro malgrado e a loro insaputa come strumenti di morte, trasformati in bombe umane dopo essere stati imbottiti di esplosivo e spediti in un mercato a morire e a far morire. In questo caso a essere usate sono soprattutto bambine sempre più piccole e indifese. L’ultima volta è successo solo due giorni fa Maidiguri, nel nord est della Nigeria, dove una bimba kamikaze usata da Boko Haram ha provocato quindici morti.
L’uso dei bambini è l’ultima frontiera superata dallo Stato islamico e dai suoi alleati. Non si tratta di una novità. Save the Cildren stima tra i 250 mila e i 300 mila i bimbi nel mondo coinvolti in azioni di guerra o di guerriglia, pratica che l’organizzazione definisce come «una strage morale, oltre che fisica, degli innocenti». Un orrore consumato fino a oggi nel silenzio indifferente di noi occidentali. La novità di questi mesi è invece la mediatizzazione dei bambini-boia che l’Is sbatte in faccia a tutti . «E’ evidente che è in corso un atroce marketing dell’orrore, pensato apposta per tenere alta l’attenzione e la paura nei nemici» spiega Marco Guadagnino, dei Programmi internazionali di Save the Children.
Li hanno chiamati «figli della jahad», ma anche cuccioli combattenti. L’estate scorsa un documentario del sito di informazione americano Vice News mostrò come vengono indottrinati alla guerra santa. In altri video messi in rete dall’Is si vedono invece bambini addestrati alla guerra. Prima il lavaggio del cervello, poi il combattimento. Il risultato si può vedere nel video diffuso dall’Is martedì, dove un ragazzino di 12 anni in tuta mimetica punta la pistola alla testa di una presunta spia del Mossad e spara. Una scena simile a quella vista il 13 gennaio scorso, quando un altro video mostrò un bambino sparare freddamente alla nuca di due kazaki descritti questa volta come «spie russe». Il pericolo, denuncia Guadagnino, è che la serialità delle immagini possa portare all’assuefazione. «Rispetto all’uccisione delle due presunte spie russe le immagini di martedì sembrano aver avuto un’eco inferiore, anche se è difficile abituarsi a certe scene», spiega. «Siamo soliti pensare ai bambini uccisi in guerra, ad esempio in Siria, e ora ci troviamo di fronte a bambini che uccidono. Ma attenzione, si tratta di due cose che dialogano tra loro. Abbiamo sceso un altro gradino di una scala verso l’abisso».
Nei giorni scorsi l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani ha denunciato come in Iraq e Siria sia in corso un «vasto e pericolosissimo» reclutamento di bambini da parte dell’Is che li attira illudendoli circa una prossima vittoria e un loro immediato ingresso in paradiso. Farneticazioni che spesso trovano complici le famiglie delle piccole vittime, simpatizzanti dello Stato islamico. Qualcuno, a volte, riesce a salvarsi. Come la tredicenne Zahàrau Babangida, nigeriana, alla quale dopo numerose minacce Boko Haram aveva fatto indossare una cintura di dinamite ma che alla fine si è rifiutata di farsi esplodere. Oppure il piccolo Abdul, anche lui 13 anni ma afghano, reclutato dai talebani per farsi esplodere tra i «cani infedeli» a Kandahar ma che alla fine ha preferito consegnarsi alla polizia. Per due che ce la fanno, però, decine rischiano di morire o di essere trasformati in assassini dai jahadisti.
Per fermare questo orrore l’Unicef ha chiesto alla comunità internazionale di mobilitarsi per salvare i bambini là dove si trovano, prima che finiscano nelle mani dello Stato islamico. Un intervento che trova d’accordo anche Save the Children: «In questo momento – conclude Guadagnino – possiamo solo lavorare sui bambini che possiamo raggiungere».
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