La tentazione è di accostare al solito bivio, rimuginando su quale strada imboccare: successo «per merito di” o “nonostante» la giovane età? Come leggere altrimenti le coordinate e tracciare una linea tra il dato anagrafico e le cifre a sei e più zeri che quantificano copie e guadagni? D’altronde l’opera seconda è sempre quella da cui ci si attende risposte, nel fuoco incrociato tra celebrità e pressione mediatica.

Vent’anni a dicembre, Billie Eilish sembra aver recepito e finanche anticipato il discorso: Happier Than Ever è il mémoire di un biennio in cui il passaggio all’età matura ha i tratti della rotta in piena tempesta, col mare grosso dello star system e i fantasmi di un passato inevitabilmente prossimo. È un filo di voce a darne l’avvio: «I’m getting older, I think I’m aging well/I wish someone had told me I’d be doing this by myself». Nella stessa trama, le insidie dell’industria discografica sono la replica in grande degli abusi privati, temi già adombrati nei ben cinque singoli pubblicati dal giugno 2020 che fanno di questo album quasi un romanzo d’appendice.

ANTAGONISTI a profusione: uomini violenti, avventurieri in cerca di fama riflessa, paparazzi, hater e stalker, come quelli del brano NDA, acronimo di Non Disclosure Agreement, l’accordo di riservatezza con cui ci si impegna a mantenere segrete le informazioni confidenziali. Informazioni che la stessa interessata esprime faticosamente, scoprendosi forse più di quanto avrebbe voluto: «Ho passato periodi di merda, che mi hanno fatto desiderare di non avvicinarmi più a nessuno. Vorrei solo che le persone potessero semplicemente fermarsi a riflettere anziché parlare continuamente».

Prevale, verosimilmente, il bisogno di cercare la catarsi nella scrittura, come afferma ancora in Getting Older: «I’ve had some trauma, did things I didn’t wanna/Was too afraid to tell ya, but now, I think it’s time». Si capisce quanto sia sarcastico il titolo Happier Than Ever. Gioventù e successo. La nuova letteratura icaresca fatta di ascesa e caduta non poteva esimersi dal comparare Billie all’ex enfant prodige Britney Spears, la cui vicenda mostra però significative differenze artistiche e umane rispetto a quella della diciannovenne di Los Angeles: «Non ho uno staff che voglia fregarmi, il che è davvero raro. Sono grata che mi sia capitato questo bel gruppo di persone, che non vogliono approfittare di me facendo ciò che altri hanno fatto in passato».

CI SONO anche protagonisti positivi, quindi, a partire dalla famiglia presente accanto a Billie fin dentro lo studio di registrazione. Ad assisterla nella lavorazione c’è ancora il fratello Finneas, tra i più richiesti produttori pop del momento, grazie al quale le pressioni dall’alto che avevano contraddistinto il precedente When We All Fall Asleep, Where Do We Go? sono state quasi annientate: «Nessuno ha più voce in capitolo. Siamo io e Finneas, nessun altro». E si sente, nel sound complessivo, ben più coeso e legato rispetto all’album del 2019. Seppur l’elettronica continui a insistere sui toni cupi, l’effetto non è più respingente, calamitando anzi l’attenzione sui versi con maggior efficacia e calore acustico.

Finneas c’era anche sul palco dell’Hollywood Bowl, assieme al Los Angeles Children’s Chorus e alla Los Angeles Philharmonic, per una performance live dalla quale è stato tratto il film Happier Than Ever: Love Letter To Los Angeles (regia di Robert Rodriguez e Patrick Osborne) disponibile dal 3 settembre su Disney+. Una lettera d’amore che chiude un romanzo a puntate, da cui forse si avrà qualche indicazione in più davanti al solito bivio.