La parola “licenziamenti”, in queste settimane, il motore di ricerca Google la associa immediatamente a Twitter, Amazon, Facebook. In effetti, il 2022 ha visto le principali società Big tech licenziare per la prima volta. Questi licenziamenti hanno come epicentro la patria delle nuove tecnologie: gli Stati Uniti.

Le ragioni vengono individuate nelle attese eccessive affermatesi nel periodo pandemico. I cambiamenti di abitudini e, di conseguenza, dei consumi, hanno lasciato ipotizzare che la domanda di prodotti di comunicazione social e l’e-commerce sarebbero cresciuti in maniera esponenziale. A distanza di un solo anno (sebbene un anno segnato da un conflitto geopolitico di grande portata) questi attori sono dovuti tornare alla realtà e, per quanto un contraccolpo fosse anche attendibile, il rimbalzo sembra anche evidenziare come le attese di crescita infinita abbiano trovato, ancora una volta, un limite.

Non mancano altre ragioni di contesto, come l’inflazione e il conseguente aumento dei tassi d’interesse stiano contribuendo a contenere la domanda globale. Si sottolinea anche come i saldi occupazionali siano assai positivi nel lungo periodo, evidenziando come la contrazione di addetti nelle grandi aziende venga compensata da assunzioni in quelle più piccole che gravitano nel medesimo settore. I più ottimisti considerano l’espulsione di migliaia di addetti un potenziale volano di sviluppo in altri comparti, in quanto un numero imprecisato di tecnici e ingegneri specializzati potrebbero andare a ricoprire importanti ruoli nelle imprese tradizionali e persino nella pubblica amministrazione. Intendiamoci, tutte riflessioni e analisi parzialmente vere, ma che non riescono a nascondere come vi sia una tendenza a vedere il bicchiere mezzo pieno.

I processi di innovazione tecnica da oltre vent’anni sono descritti come elementi di un nuovo ciclo economico espansivo. I campioni di questo modello, da Amazon a Google, passando per Apple e Facebook, dovrebbero rappresentare i punti più avanzati e tali sono in termini di capitalizzazioni e profitti. L’industria high tech ha preso il posto di quella manifatturiera relativamente alla capacità di guidare il processo di accumulazione complessivo, condizionando strategicamente il mercato. Non manca di peso e materialità, ovviamente, ma è caratterizzata da una struttura più snella e altamente finanziarizzata.

Le cinque principali società attuali paragonate a quelle del 1968 possiedono meno della metà dei dipendenti. Il paragone sul dato dei dipendenti è indubbiamente falsato dai differenti paradigmi organizzativi delle aziende nei differenti contesti storici, ma permette di sintetizzare la limitata capacità occupazionale complessiva fornita da questo segmento produttivo. Ciò che colpisce è come un rallentamento della crescita dei consumi del settore più dinamico e profittevole dell’economia si traduca immediatamente in licenziamenti di massa (circa 120 mila nell’ultimo trimestre), pari a oltre il 10% degli addetti per ogni multinazionale coinvolta. Senza cioè nessuna capacità di assorbimento, senza nessuna tenuta sociale, domina la semplice registrazione dei crudi e istantanei andamenti di mercato.

Un dato assoluto, quello dei licenziamenti, tutto sommato modesto per l’economia statunitense, ma che forse consiglierebbe di ridurre gli entusiasmi. Se il motore centrale dei nuovi assetti produttivi, dopo anni di profitti da capogiro e patrimonializzazioni di ordine di grandezza statuale, al primo rallentamento dei ritmi, si vede costretto a licenziare, il suo ulteriore sviluppo può rappresentare l’unica prospettiva dei decenni a venire? Quale spinta può generare per l’economia nel suo complesso?

L’impressione è che questo settore abbia raggiunto un enorme potere economico e politico, ma che abbia al proprio interno più problemi di quanto si voglia ammettere. Incapace di rappresentare una via di uscita sistemica dalle difficoltà dell’economia mondiale.