Negli ultimi mesi ho parlato con decine di persone per poter ricostruire la vita di Claudio Lolli, uno dei più grandi poeti musicali della storia della canzone italiana. Mi è stato evidente fin da subito che raccontare la sua storia non poteva limitarsi a una semplice biografia, ma si trattava di raccontare la storia dei mondi, e delle vite, da lui traversati, a cominciare da quel laboratorio di esistenze e forme di vita che furono gli anni settanta bolognesi.

Ho chiesto a Bifo – la persona a cui si pensa immediatamente quando si pensa al movimento del ’77 bolognese – di raccontarmi il «suo» Claudio Lolli, che è anche un modo di tornare sull’estetica e sulla sensibilità di quello straordinario movimento.

«In quegli anni non ho conosciuto Claudio Lolli personalmente, ma lo ascoltavo. Ricordo bene quella situazione in cui ascoltavamo, io e degli amici, il suo primo disco, quello dove c’è Borghesia. Tutti noi consideravamo la sua musica e il suo personaggio come il nostro sound più immediato. E non lo avevo ancora incontrato, almeno non credo, forse lo avevo incontrato ma non sapevo che fosse lui che cantava quelle canzoni che ascoltavamo così tanto e che era uno dei riferimenti più importanti di Radio Alice.

Nell’estate del ’77 ero a Parigi, dopo che ero dovuto fuggire dopo i fatti di marzo [l’omicidio di Francesco Lorusso, la chiusura di Radio Alice], e mi contattarono dalla casa editrice Savelli per scrivere un intervento per un libro su Lucio Dalla [si trattava di Lucio Dalla: il futuro dell’automobile, dell’anidride solforosa e di altre cose, a cura di Simone Dessì, ovvero Luigi Manconi]. In quel testo dicevo un gran bene di Dalla, ma dissi anche che in fondo mi sembrava un suono marginale rispetto al mio suono più autentico, che era quello di Claudio Lolli. Di fatto scrissi più di Lolli che di Dalla. Rientrato a Bologna mi dissero poi che Dalla si era molto arrabbiato, che avrebbe voluto vedermi… Per molti anni il mio rapporto con Dalla fu molto imbarazzato nei suoi confronti, aveva ragione del resto a essersi arrabbiato, fin quando, molti anni più tardi, mi è venuto a trovare, e facemmo la pace…

Ti ho raccontato questo episodio per dirti che intorno alla situazione bolognese, al movimento, sono nati in quegli anni , e negli anni successivi, una ricca bibliografia musicale, e un ricco immaginario. Ma se dovessi concentrare l’atmosfera, non trovavo allora e a maggior ragione non trovo oggi un sound migliore di quello degli zingari felici. Quella è la messa in scena di quel sentimento, di quella sensibilità, e di quel modo di vita.

Personalmente ci siamo conosciuti successivamente, credo nell’estate del ’78. Poi l’ho incontrato qualche volta, negli anni successivi, e allora eravamo insegnanti ambedue, lui in un liceo scientifico, io in un istituto tecnico. Con lui non parlavamo del passato, ma parlandoci per me è sempre stato come riprendere in mano un filo che attraversava le situazioni più diverse, ma che veniva dalla partecipazione a quel sound, all’atmosfera di quel movimento.

Ricordo l’ultimo incontro sull’autobus 2, che passava davanti a casa sua; ecco, in quegli incontri ultimi, ho avuto la sensazione che se cercavo – nostalgicamente, lo confesso, e quindi nel bene e nel male, nel piacevole e nel doloroso – un ritorno, non c’era cosa migliore che incontrare Claudio – che aveva dei toni che a me parevano anche un po’ troppo legati al passato – che non doveva continuare sempre a fare il 77ino… Ma chi posso amare di più che un settantasettino fuori del suo tempo? Perché poi in fondo non sono che questo, anche se faccio finta di essere cosmopolita e pensare al futuro— in realtà non c’era vibrazione più profonda di quanto fosse la coerenza estetica, sensibile, della poetica, e del personaggio, di Claudio Lolli.»

In quel movimento c’era anche un altro sound, più avanguardista, sperimentale, eppure tu dici che il sound che esprimeva di più lo spirito di quel tempo era comunque qualcosa più legato alla forma canzone.
Cogli un carattere molto significativo di quel momento: io vedo il ‘77 e ancor più il ‘76 come uno spartiacque… poi esagero, dico spartiacque nella storia, della crisi occidentale – ma di certo lo è stato nella sensibilità del ‘900 e del tardo novecento. E tu giustamente metti insieme la vena ironico-simbolista che Claudio interpretava nella maniera più raffinata e quello che è venuto dopo, i Gaznevada e poi la no wave newyorkese che arriva a Bologna, lo sperimentalismo tecnico… sono le due anime che si confondono nel ’76.’77, e si confondono in Radio Alice, che è al tempo stesso una rivisitazione della sensibilità dolorosa, sognante, zingaresca con un elemento di sperimentazione tecnica, di futurismo rivisitato… È giusto vedere questa doppia anima attraverso il prisma dello stile di Claudio Lolli.

Nel corso del tempo quella sensibilità ha finito per essere poi – non lo dico per distanziarmene, perché ne sono pervaso – per diventare come una specie di nostalgia umanistica, o romantica se vogliamo, una sorta di nostalgia che nel passaggio del ‘77 viene per l’ultima volta affermata e che comincia da allora a svanire. Perciò l’esperienza musicale di Claudio negli anni successivi è l’esperienza come di una dissolvenza lunghissima, anzi eterna—perché credo e spero che quel sentimento non si esaurisca mai, anche se assume sempre di più il tono della nostalgia. Io negli anni ottanta sono stato a New York in un periodo, sono entrato in un trip cyberpunk, techno e così via, ma se incontravo Claudio, o se ascoltavo la sua musica, ritrovavo qualcosa con cui non ho mai voluto perdere il contatto, e di cui non ho mai voluto perdere la complessità. È grazie a Lolli che quella complessità rimane viva anche nell’immenso rivolgimento seguito dagli anni ottanta.

Mi colpisce il modo in cui voi elaborate il lutto della fine di quella stagione, e approdate negli anni ottanta: tu hai portato avanti quello spirito attraverso il cyberpunk, l’apertura di mondi futuri alternativi, Claudio scrive racconti e canzoni molte delle quale legate al cinema, ma anche forse i suoi testi più letterari, lirici, visionari (come fu il disco di Extranei). Insomma, tu col cyberpunk e lui col suo modo uscite dagli anni settante creando mondo virtuali.
Ciò che Claudio aveva espresso poeticamente degli anni settanta era irriducibile, incompatibile con il terrorismo e la lotta armata. Per quel che mi riguarda la cosa era più ambigua, perciò per me è stato necessario segnare anche esistenzialmente una rottura con quella continuità: in quegli anni insistevo sul fatto che la continuità non è una buona cosa. Lui non aveva nulla a che fare con la continuità, perché sempre lui ha interpretato la fluidità. Il mondo poetico di Claudio Lolli è irriducibile alle forme dell’identità, alle forme dell’organizzazione e dell’identità. E quella di Claudio Lolli è l’interpretazione più autentica del ‘77.

Da questo punto di vista, verrebbe naturale interpretare Claudio Lolli con le categorie deleuziane, a partire da quella del nomade…
Assolutamente sì. La poetica degli zingari felici interpreta proprio l’idea del molecolare, del microfisico, del micropoltiico, dell’esistenza come la dimensione fluida in cui il mutamento si verifica. È vero che le categorie deleuziane si attagliano perfettamente a quello stile, e anche a quello successivo bisognare dire, perché anche extranei. sembra che claudio avesse letto i libri sul cinema di Deleuze – c’è lo stesso sentimento del movimento, del continuo sovrapporsi, della fluidità.

Claudio del resto non fu mai orgnaico né simpatizzante di nessun gruppo. Lui era veramente un «qualunque».

Questo era lo spirito del ’77. Le adesioni organizzative non importavano molto, si sovrapponevano spesso.

Al funerale di Claudio non c’erano molte figure rappresentative del mondo della cultura.
Era metà agosto, è solo quello il motivo per cui non c’era una folla oceanica: non credo che qualcuno che ha vissuto quegli anni abbia dimenticato Claudio Lolli. Possono dimenticare tanti altri personaggi, tra cui me, perché troppo caratterizzati, identificati, ma non lui, perché era veramente trasversale, nel senso che la trasversalità è il fluido, ciò che non si identifica. Per quanto riguarda la gente di cultura, è vero che non c’era: Claudio, come spero anche me, è difficile che diventiamo personaggi della cultura bolognese con le maiuscole. Non lo siamo perché non abbiamo mai voluto esserlo. Io mi arrabbierei se mi identificassero con la cultura bolognese.