Biennale Urbana nasce nel 2014 per iniziativa di due urbanisti dell’università di Venezia (IUAV) assieme a Lorenzo Romito e Giulia Fiocca dell’«osservatorio nomade» Stalker di Roma. L’idea è di spingere affinché la Biennale di Architettura assuma un ruolo più trasformativo per i tessuti urbani in cui esiste e agisca direttamente nei luoghi critici della città. Un lavoro teorico e di ‘attivismo urbanistico’ che intende anche relazionarsi criticamente con l’ignavia politica che come dimostra anche la vicenda Grandi Navi, produce un cronico immobilismo a scapito della popolazione. Ne abbiamo parlato con Andrea Curtoni: «Quest’anno abbiamo cominciato con un viaggio di una settimana in barca in giro per la laguna – su isole abbandonate – un percorso esplorativo molto interessanti. Lavoriamo anche molto con le scuole, coi singoli padiglioni e anche con degli artisti all’interno di spazi abbandonati e sottoutilizzati, cercando di sperimentare anche delle forme di governance diverse. Sempre nel 2014 abbiamo fatto una camminata ’da Mose a Mose’. Non solo per misurare i 13km dell’isola del Lido ma attraverso i luoghi abbandonati come il buco, il Des Bains, e l’ospedale, abbiamo fatto una camminata di un paio di giorni su questa isola con due bocche di porto in cui è situata la grande infrastruttura del Mose che ha drenato soldi pubblici a non finire. Un paradosso comune a molte grandi opere: grandi mezzi ed investimenti e in mezzo c’è un territorio in declino precipitoso con la chiusura di carserme, alberghi e l’ospedale. Un processo che negli ultimi 20 anni ha creato un’isola depressa e inconsciamente credo che anche per gli abitanti vivere in contiguità con questa quota abnorme di spazi abbandonati, genera frustrazione, una depressione collettiva».
«Ci interessa lavorare sulla memoria, l’oblío, l’abbandono – vivendo all’interno di questi spazi, sul terreno instabile perennemente mutabile. Al teatro (Marinoni) questa riflessione si è dilatata su quattro anni, invece alla caserma (Pepe) abbiamo tentato di comprimerla in un mese con alcune persone invitate ad esserci. Una sorta di prova per una altra manifestazione che pensiamo per maggio da un altra parte».
«Il nostro format, per usare una brutta parola, è ’Urban Intervention Camp’. L’idea di fare interventi urbani all’interno degli spazi abbandonati. E abbiamo voluto fisicamente esserci, dormire, far tutto. Ci è sembrato interessante proporre questo concetto di camp in diversi luoghi della laguna veneta per cercare di rifllettere anche su alcune questioni: dalla residenza in sé, cioè cosa vuol dire abitare in maniera instabile e temporanea uno spazio del genere, al discorso sul riuso di spazi all’interno di crisi come adesso è l’accoglienza dell’immigrazione e il turismo. Volevamo trattare questi temi in posti del reale e diversi dai luoghi controllati e tradizionali come quelli delle università».

Passato il varco del reticolato che lo divide dalla attigua spiaggia libera, lanterne colorate led illuminano uno spiazzo erboso davanti alla facciata del teatro Marinoni. «L’amacario» un’amaca costituita da un unico telo di 100 metri concepito come shelter/giaciglio comunitario collega diversi alberi in lunghe campate. Attorno ad una grande tavolata siedono una quarantina di persone; si parla inglese, svedese, italiano declinato in numerosi accenti.
In un angolo Cristopher Cichocki, un artista californiano lavora ad un’istallazione intitolata «Fluid Division, 2016» composta di grandi contentori di acqua marina misti a vegetazione e molluschi locali. Più tardi, sotto gli affreschi scrostati del teatro deco dell’ ex Ospedale al Mare, Cichocki proietta un video e illustra al gruppo di studenti della scuola di architettura di Stoccolma i propri interventi territoriali attorno alla faglia sismica di San Andreas, nel deserto del Mojave. Un esempio dei cortocircuiti che caratterizzano il lavoro della Biennale Urbana, un collettivo che si propone come una sorta di estensione alternativa alla biennale di architettura, un padiglione «apolide» (nationless pavilion) in dialogo critico con la «expo» ufficiale che quest’anno, all’Arsenale dichiara l’architettura «la più politica delle arti» e indaga su materiali poveri, insediamenti effimeri, campi profughi e «comunità intenzionali».
È un encomiabile «rapporto dal fronte» come lo definisce il catalogo ufficiale che stenta però ancora a varcare le delimitazioni istituzionali della mostra, tantopiù restrittive in questa città dove la criticità urbana è ormai la norma. Specie in questo territorio critico, stretto fra esodo e invasione, abbandono e turismo di massa, crisi ecologica cronica e ora i flussi migratori che definiscono sempre più l’impermanenza come esperienza collettiva nello spazio pubblico. Con quei parametri Biennale Urbana (BURB) propone di interloquire direttamente, applicando una «militanza urbanistica» sul territoro.
«Anche (quando la Biennale si pone) il problema della rappresentazione sociale dell’architettura…non agisce poi dov’è, è assurdo!» afferma Andrea Curtoni, fra gli animatori del gruppo che nasce nel 2014 come workshop all’interno del padiglione svizzero in colaborazione con l’ETH di Zurigo. Il collettivo vuole invece ripensare il rapporto fra biennale e la Laguna di Venezia e per questo intraprende collaborazioni «oblique»: con il Leone d’oro paraguayo Solano Benitez del Gabinete de arquitectura o l’Avenir Institute di Denis Maksimov & Timo Tuominen. O il dibattito/performance sui profughi al padiglione Greco la scorsa settimana.
«Quando abbiamo collaborato con i Cileni ci hanno detto che hanno speso di più per allestire il padiglione Cile alle Corderie che non per fare il lavoro in Cile che il padiglione illustrava. Siamo insomma di fronte a un paradosso della rappresentazione… Secondo noi sarebbe più interessante se (l’architetto) cileno usasse quelle risorse per innescare una trasformazione su questo territorio, generare un impatto trasformativo nel contesto veneziano che ne ha molto bisogno».
BURB è nata nel 2014 dalla collaborazione di Curtoni e Giulia Mazzorin, due giovani urbanisti dello IUAV, ed il collettivo Stalker di Roma, un think tank sperimentale che propone indagini urbanistiche basate su «pratiche spaziali esplorative, di ascolto, relazionali, conviviali e ludiche». I gruppi si ispirano al pensiero del sociologo ed economista svizzero Lucius Burckhardt, teorico dell’architettura come interazione anche aleatoria e «impalpabile» fra persone, spazio e paesaggi.
BURB intende esplorare i territori liminali e di margine di una città sospesa fra storia e tematiche postmoderne che chiamano in causa l’idea stessa di città e di convivenza urbana. Il primo atto di questa mappatura critica è stata «una peregrinazione lagunare in cerca dell’Arcipelago Europa», specie nei luoghi dell’oblio – quelli abbandonati della Laguna – poiché come scrive Mazzorin: «esiste una fase di transizione, che comprende il tempo che intercorre tra il momento dell’abbandono e l’inizio di un nuovo investimento di riqualificazione immobiliare, nel quale il bene continua ad attrarre molteplici interessi. Si tratta di un interstizio temporale che può accogliere percorsi formativi trans-disciplinari e sperimentazione nel campo della produzione artistica e del design.
Negli spiragli aperti dallo spopolamento della Laguna BURB intraprende «azioni urbane»: non occupazioni ma insediamenti transitori in questi epicentri dell’oblio poiché, spiega Mazzorin , «abitare un luogo dell’oblio significa contribuire al miglioramento spaziale dello stesso per permettere la presenza dell’uomo, e la sperimentazione di nuovi linguaggi estetici». Contrastare cioè fisicamente la cancellazione della memoria e dell’esperienza collettiva degli abitanti di una città che è il prodotto del’abbandono ed eventualmente della «gentrificazione», le dinamiche prevalenti e distruttive di era global- capitalista. Abitare luoghi dismessi diventa dunque pratica radicale ed in questa città sempre più svuotata ha portato BURB ad organizzare insediamenti nell’ex Ospedale al Mare e nella attigua caserma Pepe, organzzando workshop, incontri, performance. Dalle «lecture» ai picnic, come momenti di convivialità aggregativa sullo sfondo di spazi «negativi», atti a scardinare concettualmente il ciclo di degrado/bonifica/privatizzazione che prevale in Laguna come in molte città moderne.
Un lavoro teorico e soprattutto pratico che vuole insinuarsi negli spazi abdicati dalla politica, dal malgoverno e della speculazione su quest’isola in statsi negativa, paradigmatica di abbandono e di malagestione urbanistica. Un’azione teorica e di resistenza propositiva per re-inventare una cultura della condivisione della città, contrastare il colpevole immobilismo della politica e la narrazione di inevitabilità del declino.