Si chiude domani, con una sorta di maratona temporale e spaziale per la città, il 43° festival del teatro della Biennale di Venezia. È stata una manifestazione complessa e importante, che segna anche il momento conclusivo dell’attuale direzione di Alex Rigola: vanno in scadenza infatti tutte le attuali direzioni di settore e, dopo la mostra del cinema a settembre e la musica ad ottobre, anche gli organi di governo dell’ente veneziano. Per il quale risulta particolarmente difficile fare previsioni, visto quanto è successo alla Rai con il ritorno in grande dei patti nazareneschi.

Viene da preoccuparsi perché la Biennale resta uno dei punti guida della cultura italiana da 120 anni esatti, nel bene e nel «male» se si pensa al ventennio fascista con tanto di arrivo in laguna di Adolf Hitler. Sta tutta conservata e repertata del resto, la documentazione di un secolo vitale e la sua centralità nell’arte, per il nostro paese e anche per il resto del mondo, con molte immagini e citazioni e materiali, nel fantastico Archivio storico biennalesco. Anche ora che si è trasferito nella moderna sede di Porto Marghera (5 minuti di treno da Venezia Santa Lucia), lasciando solo, a testimoniare la forza tangibile di quel patrimonio, la Biblioteca, aperta e frequentabile nel Padiglione centrale dei Giardini dove avvengono le mostre di arti visive.

È stata questa una delle decisioni più significative della presidenza Baratta, assieme a quella di coordinare e integrare con le mostre delle opere d’arte dal vivo, anche i processi attraverso i quali ci si arriva. È nata per questo, da diverso tempo, la Biennale College, ovvero la possibilità per diverse centinaia di allievi ogni anno nelle diverse discipline, di «lavorare» per alcuni giorni con i grandi nomi dello spettacolo internazionale. Se non si tratta di una vera «scuola», è certo una occasione rara di fequentare la bottega di un maestro e osservarne da vicino metodi, ispirazione, e modalità di lavoro. Con qualche sorpresa anche divertente, come quando qualcuno dei drammaturghi ospiti (Pascal Rambert, Yasmine Reza, Mark Ravenhill) ha lasciato trapelare una certa delusione vedendo come era stato tradotto in Italia.

Per gli allievi attori invece, i risultati si vedranno domani, nella maratona che si diceva prima. In tre tornate successive (a partire dalle 15, poi alle 16 e alle 17), partendo dal Conservatorio per approdare in fondo all’Arsenale, si svilupperà uno spettacolo di più di quattro ore, composto di sette momenti separati, unificati però dal titolo collettivo che ne è stato originale traccia, La terra trema, come il film di Visconti, e anche come l’orizzonte incerto di luoghi terremotati e di esistenze appese alla crisi, come ha specificato Alex Rigola. E di certo, come gli scorsi anni, non mancheranno le sorprese, tanto sono peculiari e disparati i modi di lavorare dei diversi artisti, dalla brasiliana Christiane Jatahy ad Antonio Latella, da Fabrice Murgia alla Agrupacion Señor Serrano.

Sui diversi palcoscenici della Biennale proseguono intanto gli ultimi spettacoli del cartellone (oggi alle 12 alle Fondamenta nuove i Babilonia Teatri presentano il loro progetto Pinocchio, nello spazio delle novità italiane). Dopo l’apertura, ad alta temperatura, con Marthaler e Ostermeier, è stato ancora il centro dell’Europa a mostrare i suoi linguaggi, anche se di qualità meno entusiasmante. Falk Richter è un autore e regista ormai consolidato alla Schaubühne berlinese: le parole si intrecciano nelle sue creazioni a musica e danza. Vedendo Never forever se ne intuiscono le ragioni umanitarie nel voler approfondire la qualità liquida della vita per esistenze costrette ormai a una globalizzazione forzata. Ma nonostante l’audacia di quei corpi danzanti nella semioscurità, non si riesce più di tanto a partecipare alla loro «dispersione». Molto lontano dall’universo Bausch.

Uguale discorso vale per il belga Jan Lauwers, pure insignito l’anno scorso del leone d’oro alla carriera. Il desiderio di indagare su identità, e diversità, sta alla base del suo The blind poet: sette ritratti di persone diverse che pure formano assieme a lui la Needcompany. Ma i sette monologhi (funestati a Venezia da problemi tecnici) finiscono con lo svelare il curioso mix alla base del gruppo: impegno civile e retaggio terzoteatrista, clownerie e analisi autocoscienziali. Tanto che il ritratto più incisivo resta quello, senza parole, del giovane danzatore tunisino che di recente ha aderito al gruppo.

Milo Rau, svizzero, è apparso invece poche settimane fa a Santarcangelo, con uno spettacolo che riportava fedelmente gli scritti di Breivik, il giovane nazi norvegese responsabile poche estati fa di un vero e proprio eccidio giovanile. Anche stavolta ci mostra un eccidio, ovvero lo sterminio dei Tutsi in Rwanda nel 1994 da parte della componente Hutu. Un bagno di sangue davanti al quale i paesi «civili» non fecero molto. Rau ce lo racconta «dal di dentro», ovvero dagli studi radiofonici da dove quell’odio sanguinario veniva diffuso e amplificato, tra canzoni pop («roba fresca da Kinshasa!») e posta del cuore telefonica. Per due ore sentiamo la «naturalezza» di quell’incitamento all’assassinio, come fosse la cosa più normale. Uno spettacolo ributtante per le coscienze, un talk show narcotico e velenoso che diede assuefazione. Qualcuno può rimanere deluso dal fatto che nessuna spiegazione venga data o cercata di quel conflitto razziale che portò un paese all’ecatombe. Ma qui si aprirebbe il discorso su utilità e funzione del teatro. E si allontanerebbe irrimediabilmente e comunque da quella tragedia africana.