La posizione centrale della Germania in Europa, il suo ruolo regale che spodesta altre presenze è confermato anche nell’arte: è l’inquietante e minaccioso padiglione tedesco allestito da Anne Imhof ai Giardini della Biennale di Venezia a conquistare il Leone d’oro in Laguna. Così come miglior artista è Franz Erhard Walther (classe 1939) , figura storica della dimensione performativa tedesca, in grado di incorporare gli spettatori nell’opera e di affidare al cucito le trame del mondo. Insomma, la Germania mostra ancora una volta la sua potenza di tiro e fa incetta di «ruggiti».

Imhof (nata nel 1978) ha messo in scena un suo personalissimo Faust: ha ridisegnato l’edificio in vetro, lo ha reso calpestabile con grande insicurezza, affollato di glaciali ed enigmatici ragazzi e ragazze che si muovono lungo il percorso (stanno anche sotto il pavimento, «sottomessi» ai passi pesanti dei visitatori), guardando lontano con occhi vitrei, inespressivi e lasciando dietro di loro sadici reperti, a metà fra archeo-strumenti del marchese de Sade e oggetti di tortura per celle di isolamento. Il padiglione, forse troppo patinato e diretto come fosse una sfilata di moda in cui i modelli devono imparare a sopravvivere nel vuoto sociale e sentimentale, è sembrata alla giuria –  Francesca Alfano Miglietti, Manuel J. Borja-Villel, Amy Cheng, Ntone Edjabe, Mark Godfrey – una ruvida metafora dei nostri tempi, «che pone domande urgenti, generando uno stato d’ansia consapevole». In effetti, dà il senso dell’enclave che è diventato il mondo contemporaneo, pone l’accento sull’invalicabilità dei confini e insieme sulla paura che domina le emozioni. Tanto da trasformare tutti in manichini viventi che si aggirano in spazi simili a gabbie trasparenti. Doberman verissimi compresi che, dopo l’inaugurazione, sono stati lasciati liberi.

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L’Italia magica ispirata a Ernesto de Martino, guidata da Cecilia Alemani alla riscossa di un presente in realtà molto buio e tempestoso (officina di scienziati pazzi che collezionano pezzi a immagine di Cristo, o la cattedrale rovesciata divenuta illusione ottica nello specchio acquatico, dibattiti nella penombra sulle sorti del pianeta) non ha colpito i giurati della 57/ma edizione. Non solo eurocentrici – per fortuna – i premi permettono di salire sul podio, come menzione speciale, al Brasile rappresentato da Cinthia Marcelle. In fondo, pure lei (nata a Belo Horizonte nel 1974) non ha fatto altro che rivoluzionare lo spazio dato per reinventarlo in una forma incerta, angosciante, densa di cupi presagi. L’architettura del rischio sembra avere la meglio in Laguna. Non uno sconcerto della visione, ma profondamente fisico, la vertigine dell’equilibrio stesso. Tra i padiglioni nazionali, ci sarebbe piaciuto vedere in gold il georgiano Vajiko Chachhiani. Se la Germania ha spogliato pareti e muri per un controllo panottico migliore, qui c’è una casa in legno disabitata, perfettamente arredata in stile rurale: nelle stanze che si possono sbirciare dalle finestre, continua incessantemente a piovere dentro, facendo marcire e annientando il ricordo di vite lì vissute.

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Menzionati speciali sono anche all’americano Charles Atlas e il kosovaro Petrit Halilaj, invitati nella mostra Viva Arte Viva della curatrice francese Christine Macel. Il primo è stato insignito per lo scandire del tempo dedicato al tramonto in 18 minuti che scorrono alla rovescia su display digitali giganteschi; in realtà il suo è un premio quasi alla carriera, dal momento che Atlas da quarant’anni attraversa la scena d’avanguardia come filmmaker, ha lavorato con il coreografo Cunningham e ha cancellato progressivamente dalla danza la figura umana, sostituendola con sequenze numeriche. Il secondo ha invece ipnotizzato la giuria con le sue farfalle notturne, giacenti a terra, falene imbozzolate da abiti cuciti con stoffe tradizionali, per realizzare i quali l’artista ha collaborato con sua madre. Tutto ebbe origine da una visita di Halilaj in un magazzino di Pristina dove, imballata e dimenticata, c’era una intera collezione di lepidotteri dell’ex museo di Storia naturale.

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Il Leone d’argento dedicato a un artista emergente è andato all’egiziano Hassan Khan, per aver trasformato la percezione di un luogo con la sua Composition for a Public Park: un riconoscimento quasi dovuto, data la musicalità insistita di questa Biennale. Peccato però per il francoalgerino Kader Attia e la sua bellissima installazione tra memoria e sonorità, dove pure il cous-cous «ballava») e anche per The Play, il gruppo giapponese che se ne andava alla deriva su una zattera assurda mentre il mondo stava con il naso all’insù per seguire l’allunaggio di Apollo 11.