Il primo segnale forte di cambiamento della politica estera degli Stati uniti dopo l’elezione di Joe Biden è arrivato: la Casa bianca ha rimosso il veto all’elezione di Ngozi Okonjo-Iweala alla presidenza dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). L’ex-ministro delle finanze nigeriano, nonché prima africana candidata al vertice dell’organismo, potrà ora prendere il posto del presidente uscente Roberto Azevêdo e ottenere l’incarico.

Infatti, Okonjo-Iweala, 66 anni, economista di fama mondiale che era riuscita nell’arduo compito di risollevare le finanze nigeriane e attivare diversi processi di inclusione delle donne e dei giovani nella vita del Paese aveva fin da subito ricevuto il sostegno di 162 dei 164 stati membri del Wto, ma gli Stati uniti, che durante la presidenza di Trump avevano cercato di riaffermare il controllo sugli organismi internazionali, avevano di fatto bloccato la sua nomina sostenendo invece la ministra del Commercio della Corea del Sud (l’altro stato contrario), Yoo Myung-hee.

 

Ngozi Okonjo-Iweala, prossima presidente del Wto (Ap)

 

LA SVOLTA, ANNUNCIATA da una nota dell’Ufficio del rappresentante per il commercio degli Stati uniti, è stata considerata da tutti gli analisti politici una conferma della volontà della nuova amministrazione di rompere con i quattro anni precedenti. Del resto, Joe Biden aveva già iniziato lo smantellamento delle politiche trumpiane a ritmo serrato, firmando ben 25 ordini esecutivi a pochi giorni dal suo insediamento. Ora sono in molti a chiedersi quali saranno le sue prossime mosse in politica estera, soprattutto nelle aree di maggiore interesse strategico come, appunto, l’Africa.

Durante la presidenza di Donald Trump il continente africano era stato derubricato a terreno di contrasto all’egemonia cinese e le relazioni diplomatiche tra Usa e Paesi africani avevano sfiorato i minimi storici. Per citare due casi molto significativi, per due anni le poltrone degli ambasciatori statunitensi in quasi metà degli stati africani sono rimaste vacanti e persino la carica di Segretario per gli affari africani (il ruolo di responsabilità sull’Africa più importante nel governo Usa) è rimasto vuoto per quasi metà del mandato o è stato occupato da funzionari pro tempore. La prima conclusione, ovvia, è che per Trump l’Africa non rappresentava una priorità politica.

Di conseguenza, l’ex-presidente ha provato in tutti i modi a tagliare i fondi destinati ai Paesi africani agendo sul Congresso e sulle organizzazioni internazionali in cui gli Stati Uniti hanno un peso determinante. Partendo dalla riduzione drastica dei fondi di sviluppo e cooperazione del proprio governo, Trump si è poi rifiutato di finanziare le agenzie delle Nazioni unite e, da ultimo, ha poi tentato di ritirarsi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel bel mezzo della pandemia generata dal Coronavirus che sta mettendo in ginocchio molti dei Paesi africani.

E POI C’È LA CINA, l’ossessione di Trump. Nell’ambito del piano della «Nuova via della seta», il governo cinese sta investendo dal 2013 miliardi di dollari per realizzare infrastrutture terrestri e marittime in circa 70 Paesi nel mondo e l’Africa è uno dei centri nevralgici di tale programma. Dall’inizio del nuovo millennio la Cina ha costruito in Africa più di 6.000 chilometri di ferrovia, 6.000 chilometri di strade, 20 porti, 80 centrali elettriche, parchi industriali e zone economiche speciali, oltre alla sede dell’Unione africana. Ed è pur vero che, secondo lo studio pubblicato dalla Johns Hopkins University, dal 2010 a oggi i lavoratori cinesi nelle ditte che operano in Africa si aggirano intorno ai 200 mila l’anno, con picchi di quasi 250 mila.

A ISTITUZIONALIZZARE quest’impegno titanico, il 10 gennaio scorso Pechino ha diramato un comunicato ufficiale che spiega chiaramente come la «Nuova via della seta» sia il pilastro della sua politica estera e, di conseguenza, il progetto al quale dovranno far fronte tutti i suoi avversari. In Nigeria, ad esempio, è stata da poco annunciata la costruzione di una nuova linea ferroviaria che connetterà la megalopoli Lagos al secondo centro del Paese, Ibadan. I 156 km di via ferrata saranno finanziati tramite un prestito di 1,3 miliardi dalla Banca Import-Export Cinese.

LA REAZIONE AMERICANA a un certo punto dovrà andare oltre le accuse al “modello cinese”. Sembra improbabile aspettarsi una sorta di nuovo piano Marshall, soprattutto dopo quattro anni di isolazionismo trumpiano, ma non ci si può più limitare, come fece l’allora segretario di stato Rex Tillerson nel 2018, a puntare il dito contro «la corruzione, i prestiti a tassi altissimi e la tendenza a incoraggiare la dipendenza e a impedire la crescita democratica a lungo termine dei governi». Soprattutto in un’ottica in cui gli Usa si allontanano sempre più.

Tornando alla Nigeria, per citare un caso palese, ma potremmo parlare del Sudan, della Somalia o dell’Eritrea, sono anni che le politiche migratorie statunitensi si sono irrigidite. Il “Muslim Ban” di Trump ha solo accentuato la rottura, per un nigeriano (anche laureato, benestante o parente di residenti negli Usa) era già praticamente impossibile ottenere un visto per gli Stati uniti.

D’ALTRONDE, È INUTILE GIRARCI intorno, in Africa c’è bisogno di investimenti. Tenendo da parte le cause storiche di tale stato di necessità (cause che hanno trasformato gli aguzzini di un tempo nei “benefattori” di oggi), la stessa African Development Bank, un’istituzione finanziaria no-profit, evidenzia come ci sia un deficit che oscilla tra i 68 e i 108 miliardi di dollari annui di finanziamenti per le infrastrutture. Questi fondi dovranno, giocoforza, essere reperiti da qualche parte ma, si sa, quando si tratta di interessi così importanti, nulla si ottiene gratis.

Per tornare al presente, a Joe Biden, molti dei primi ordini esecutivi firmati riguardano l’Africa. Primo su tutti l’abolizione del cosiddetto “Muslim ban”, ovvero il divieto, per chi provenisse dai Paesi a maggioranza musulmana, di viaggiare negli Stati Uniti. Il provvedimento si inserisce in quadro più ampio di promesse elettorali che il duo Biden-Harris aveva fatto agli immigrati africani negli Usa, la cosiddetta African diaspora community, impegnandosi a permettere la riunificazione delle famiglie e a restaurare i «principi delle politiche americane di immigrazione» (come si legge sul sito personale del presidente).

Ma la nuova amministrazione si è anche impegnata a fornire supporto per i vaccini anti-Covid, il problema più stringente per molti stati che al momento vivono una crisi economica ancora più opprimente del solito, oltre ad aiuti di tipo logistico ed economico.

Sul piano politico anche la scelta delle cariche istituzionali sembra rompere con i quattro anni precedenti: al Comitato interno per gli Affari Esteri sarà nominato il membro del Congresso Gregory Meeks, uno storico sostenitore di una politica attiva nel continente africano e al Comitato del Senato per le relazioni estere, Bob Mendez, un senatore che fu al centro degli attacchi dell’amministrazione Trump proprio in occasione del viaggio di Tillerson nel 2018 poiché aveva evidenziato la carenza di impegno degli Usa nel continente.

W. GYUDE MOORE, ex-Ministro dei lavori pubblici della Liberia e “senior policy fellow” del Centro per lo sviluppo globale, individua alcune aree chiave in cui l’amministrazione di Biden dovrebbe agire in maniera diversa da quelle precedenti. Innanzitutto, smettere di considerare l’Africa come una scacchiera in cui si giocano soltanto equilibri di forza con il rivale cinese. In secondo luogo, rivitalizzare il programma Agoa («Programma di crescita e opportunità per l’Africa»), il piano di collaborazione e assistenza economica e commerciale nei confronti dei paesi dell’Africa subsahariana lanciato nel 2000 dal Congresso degli Stati uniti. Inoltre, dovrebbe investire sulla formazione, una risorsa fondamentale per la crescita del continente e fondare succursali di campus in loco, come ha fatto la Carnegie Mellon University che ha istituito la prima succursale africana di campus americano in Ruanda, oppure finanziare borse di studio.

IN ULTIMA ANALISI GLI USA, come la Cina e tutti gli altri stati ricchi dovrebbero smetterla di interferire con i tentativi di auto-determinazione degli stati africani. Il 1° gennaio 2021 è entrato in vigore l’AfCFTA, l’accordo di libero scambio continentale africano tra 54 delle 55 nazioni dell’Unione africana che si configura potenzialmente come la più grande area di libero scambio del mondo, con un volume di mercato da 3.000 miliardi di dollari. «Come 54 unità individuali, ci manca il potere e la leva quando ci relazioniamo con economie di dimensioni continentali come Stati uniti, Cina, India o Ue – ha dichiarato Moore -. Se sostenete la prosperità africana a parole, allora dimostratelo nei fatti. Non minate l’AfCFTA».