Dopo quattro anni di carta bianca lasciata a Trump al regime di al-Sisi, che l’avvento di Biden alla Casa bianca avrebbe scompigliato un po’ la situazione ce se lo aspettava. O almeno questo emergeva dalle dichiarazioni del democratico prima delle elezioni e nei mesi da presidente-eletto: «Basta con gli assegni in bianco di Trump al suo ‘dittatore preferito’», come il tycoon apostrofò l’alleato.

Dal Cairo ci si attendeva una virata, anche simbolica, di facciata, sulla questione dei diritti umani. Non è successo eppure i rapporti, almeno quelli militari, non ne hanno risentito. Se le autorità egiziane, dopo la pressione globale per il rilascio dei tre membri dell’ong Eipr, hanno ceduto rimandandoli a casa (ma le accuse di terrorismo restano), l’ultimo episodio in ordine di tempo ha ricordato anche a Washington che il lupo il vizio non lo perde: domenica agenti in borghese hanno arrestato a Mounofiya e ad Alessandria sei familiari di Mohamed Soltan, attivista egiziano ed ex prigioniero politico, rilasciato nel 2015 dopo due anni di carcere e un lunghissimo sciopero della fame, poi deportato negli Stati uniti dopo la rinuncia alla cittadinanza egiziana.

È da lì che prosegue la sua attività di opposizione al regime con l’organizzazione Freedom Initiative. Ed è da lì che ha lanciato la sua “bomba”: una denuncia alla corte federale di Washington DC contro l’ex primo ministro egiziano Hazem el-Beblawi per le torture subite in prigione, dove fa anche i nomi del presidente al-Sisi e del capo dei servizi segreti Abbas Kamel.

Non è la prima volta che il regime prova a fermare Soltan attaccando la sua famiglia. Era già successo nel 2020: cinque familiari vennero arrestati per essere rilasciati poco dopo le elezioni americane. Il padre invece è in carcere dal 2013, condannato all’ergastolo perché tra i leader dei Fratelli musulmani, messi al bando da al-Sisi. Lo stesso Mohamed fu arrestato per aver protestato dopo il massacro di sostenitori islamisti dell’agosto 2013 a piazza Rabi’a, l’atto primo del regime.

Il rilascio di novembre 2020 rientrava nella categoria gesti di buona volontà, simile a quello concesso all’Eipr, per disinnescare la mina con cui Biden sembrava minacciare gli storici rapporti con l’Egitto. In particolare, l’intenzione di far dipendere la vendita di armi al rispetto dei diritti umani (vedi Arabia saudita), secondo quanto deciso dal Congresso lo scorso dicembre.

Eppure, se è vero che Biden non ha ancora telefonato ad al-Sisi (destino condiviso con il premier israeliano Netanyahu, sempre più nervoso a riguardo) e se è vero che il Dipartimento di Stato ha fatto sapere che seguirà il caso della famiglia Soltan, è di ieri la notizia dell’approvazione alla vendita di 168 missili tattici Raytheon all’Egitto, valore totale 197 milioni di dollari. Erano stati chiesti dalla Marina egiziana per le aree costiere mediterranee e del Mar Rosso.

La vendita include anche il supporto tecnico e logistico americano. La motivazione la dà il Dipartimento di Stato in una nota: «L’Egitto continua a essere un importante partner strategico in Medio Oriente». A conferma dell’inamovibile pacchetto di aiuti militari garantito annualmente al Cairo, 1,3 miliardi di dollari.

Quella somma ha cristallizzato nel tempo le relazioni tra Il Cairo e Washington, difficili da scalfire anche nel post-Trump, sincero e indefesso ammiratore di al-Sisi. Da quando la vittoria di Biden è stata certificata al di là di qualsiasi ragionevole dubbio, spiegano funzionari anonimi all’agenzia indipendente Mada Masr, il ministero degli esteri egiziano ha iniziato a lavorare a una serie di proposte per puntellare l’alleanza, dal ruolo regionale (Libia e Palestina su tutto) al possibile allentamento della pressione sulle opposizioni interne. Magari anche qualche rilascio dal carcere – esclusi a prescindere i Fratelli musulmani – un’opzione che però non andrebbe giù ai veri decisori, i servizi segreti.

A preoccupare il regime era stata anche la nascita, in occasione del decimo anniversario della rivoluzione, lo scorso 25 gennaio, dell’Egypt Human Rights Caucus, una sorta di lobby formata da parlamentari democratici per fare pressioni su Washington in merito all’Egitto. I 168 missili potrebbero ora far svanire ogni paura.