Le sirene del “moderatismo neocentrista” – peraltro assai spompate, dagli storici fallimenti pratici e l’assurdità di riesumarne le ascendenze tardoblairiane invocate dai cascami italiani – non cattureranno Joe Biden e la nuova amministrazione Usa.

Non solo per il debito che Biden ha contratto con l’ala sinistra del Partito Democratico che certo non smobiliterà il proprio presidio. Ma soprattutto per autentiche motivazioni di merito maturate fra tutti i democratici, le quali spingono verso un radicalismo sui generis, da tradurre in progetti di riforma tanto radicali quanto razionali. Oltre agli impegni già dichiarati per il rilancio della cooperazione mondiale e per la lotta ai cambiamenti climatici e ambientali, appare particolarmente significativo l’impianto che si intende dare alla politica economica e sociale complessiva, con un forte ruolo dello Stato e una nuova centralità delle questioni del lavoro.

Qui impressiona l’importanza che viene finalmente attribuita a una questione elusa per anni dalla maggior parte dei paesi Ocse anche quando guidati da governi di centrosinistra: la “piena e buona occupazione”. Ne è testimonianza il fatto che, dalla campagna elettorale che ha portato al successo di Biden ad oggi, molti esponenti democratici americani, anche “centristi”, si sono impegnati nell’elaborazione, la discussione, la proposta di programmi di “lavoro garantito”.

Iniziative basate su una nobile tradizione teorica, che da Keynes va a Meade, a Minsky, ad Atkinson, la quale ha sviluppato la convinzione che in circostanze – come le odierne – di drammatico sottoutilizzo dei fattori fondamentali della produzione, lavoro e capitale, e di secular stagnation strisciante quindi di bassi investimenti, anziché concentrarsi su trasferimenti monetari indiscriminati (le misure sul reddito ma anche le decontribuzioni e la riduzione del costo del lavoro, mentre diverso è il caso del necessario contrasto alla povertà), lo Stato possa e debba creare lavoro direttamente con grandi progetti stile New Deal, venendo utilizzato come employer of last resort, immagine che è un’articolazione di quella dello “Stato innovatore” e dello “Stato strategico”.

Un grande vantaggio di una impostazione simile è che così si può trattare la dinamica delle diseguaglianza come fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva ma primariamente la sfera produttiva, l’allocazione, le strutture in cui si articolano i vari modelli di sviluppo. Perché le problematiche della diseguaglianza/eguaglianza acquisiscano concretezza, perdendo quell’alone di retorica inconcludente che spesso tendono ad assumere, c’è un elemento cruciale su cui – nella fase in cui si intrecciano tanti e diversi elementi di crisi – è necessario portare l’attenzione: il connubio tra analisi delle diseguaglianze e osservazione degli elementi strutturali del funzionamento dell’accumulazione e della produzione del sistema economico capitalistico, ivi compresa la dinamica del progresso tecnico.

Tale connubio è, in realtà, determinante per l’articolazione dell’ethos democratico, allargandolo fino a comprendere le questioni della “democrazia economica”, e, in essa, per il futuro che si può immaginare per i ceti medi, altrimenti a rischio di scomparsa. Solo in un disegno nuovo e più complessivo di sviluppo, oltre le mere istanze redistributive, la problematica della diseguaglianza può evitare di essere letta prevalentemente con la chiave del parassitismo predatorio e del ritorno della rendita o con la chiave della concentrazione quasi esclusiva sul destino dei poveri, degli ultimi, dei diseredati, e può, viceversa, fare adeguato spazio all’attenzione ai bisogni e alle crescenti difficoltà dei ceti medi, i quali rimangono pur sempre – come ha detto Biden nel suo primo discorso all’indomani dell’affermazione elettorale – “il nerbo della democrazia”.

La domanda, dunque, anche per le forze di sinistra italiane, non è quali suggestioni neocentriste trarre dalla vicenda americana, ma perché non aggredire la straordinaria occasione che si presenta con il Next Generation EU, invece che con una marea di trasferimenti monetari e di benefici fiscali (tutte misure indirette non in grado di agire sulle strutture), con progetti di alto profilo per creare direttamente lavoro, incidendo profondamente sullo status quo e modificando il modello di sviluppo in direzioni programmate e intenzionalmente organizzate. Questa sì che sarebbe una grande “riforma”, radicale e pragmatica allo stesso tempo, come quella che si delineò ai tempi di Keynes, quando una radicalità inusitata di progettazione teorica e di critica etico-politica congiunse il pensiero innovativo keynesiano alle rivoluzionarie iniziative di Roosevelt e al riformismo radicale europeo – il laborismo inglese ispirato da Beveridge e la socialdemocrazia scandinava – che si opponevano, anche idealmente, ai totalitarismi.