Oltre ottanta milioni di voti. Una vittoria storica. Grazie agli ultimi voti espressi per corrispondenza, conteggiati ieri, Joe Biden supera una soglia mai varcata prima. È il presidente più votato di sempre. Ma non per questo il più forte presidente di sempre. Anzi. È una larga vittoria nel voto popolare – oltre dieci milioni in più rispetto a quelli ottenuti da Obama nel 2008 – che si traduce in un buon distacco in termini di voti di collegio (306-232), un successo che è frutto di un’affluenza record sotto la spinta di tutte le componenti del Partito democratico e grazie al grande impegno militante e organizzativo di giovani e di attivisti progressisti e di sinistra. Né va trascurato l’apporto di componenti repubblicane come il Lincoln Project. Una mobilitazione ad ampio spettro resa possibile dal comune intento di impedire un secondo mandato di Donald Trump. Una sorta di fronte antifascista. Termine appropriato, anche alla luce dei tentativi paragolpisti di Trump e dei suoi accoliti di delegittimare la volontà dell’elettorato e poi d’impedire il passaggio dei poteri. Trump ha voluto un referendum sulla sua presidenza, anzi su se stesso. Ha perso. Ma anche lui ha conseguito un record, con i 73,9 milioni di voti ottenuti, un bottino inimmaginabile per i suoi predecessori repubblicani candidati alla Casa bianca. La vittoria a valanga di Reagan su Carter, nel 1980, fu resa possibile da circa 44 milioni di voti popolari.

BIDEN È IL PRIMO a saperlo, di essere entrato nella storia «per merito» soprattutto del suo avversario, nella cornice di circostanze estreme, senza precedenti. Raccontare il suo successo come il frutto di una sua astuta operazione politica centrista e moderata, una ricetta peraltro da assumere a modello, a bussola di una politica vincente, anche in Italia, è semplicemente ridicolo. Certo, la campagna elettorale di Biden ha rispecchiato la sua storia, i suoi orientamenti maturati in decenni di politico navigato, ai vertici del potere washingtoniano. Ma è sempre stato attento, da candidato presidenziale, a tenere nel debito conto il sostegno, indispensabile, della sinistra, nella sua diverse articolazioni, non solo l’area di Sanders, ma anche quella rappresentata da Alexandria Ocasio Cortez e dalla «squad». L’ha fatto se non altro per la semplice ragione che, oltre che per conseguire una difficile vittoria, una buona relazione con la sinistra gli sarebbe stata indispensabile per ottenere un buon risultato nelle elezioni per il senato, per la camera e per le assemblee statali. Una relazione, dopo il voto, ancora più indispensabile per governare, con un senato in equilibrio precario, anche se il Partito democratico dovesse vincere nelle elezioni suppletive in Georgia.

PROPRIO PERCHÉ è un politico «vecchia scuola» Biden dovrebbe proseguire lungo il difficile crinale di una linea inclusiva, senza cedere alla tentazione del «club esclusivo» dell’establishment che si considera autosufficiente, con sguardo di disprezzo verso la sinistra senza la quale Trump sarebbe ancora lì, per un altro quadriennio. Le prime mosse vanno in quella direzione? No. Ma questo non significa ancora che la partenza prefiguri anche il prosieguo del suo percorso. I primi sei nomi di ministri e consiglieri sono decisamente, com’è stato universalmente osservato, catalogabili politicamente come centristi e moderati. Ma non è questo il punto prevalente. Biden li ha nominati innanzitutto per segnare una discontinuità: curricula di livello, diversità di genere, di razza, di religione, persone di mondo. Il contrario del misto di dilettantismo e arroganza e ostentato «americanismo» dell’amministrazione Trump. Ha iniziato con le aree riguardanti la politica internazionale e di sicurezza, anche con l’idea di rivolgere un messaggio al mondo: a Washington si volta pagina, lo sappiano alleati e avversari.

LA PRESENTAZIONE dei futuri responsabili della politica internazionale è dunque solo il primo tempo. A cui seguirà la parte riguardante i dicasteri sociali ed economici (oltre alle centinaia di posti di nomina politica, molto importanti anche se non di rilievo pubblico in virtù dello spoils system). Qui si capirà fino a che punto voglia spingersi Biden per dimostrare di essere rispettoso del patto di collaborazione con Sanders, Liz Warren e la sinistra. Strano che Biden abbia alluso al possibile ingresso nel governo di un personaggio «elettore» di Trump, un repubblicano «perbene» che dovrebbe suggellare il passaggio dall’epoca del conflitto a oltranza a quella della ricucitura. Buone intenzioni, a patto che non significhi un’illusoria tregua con il fronte di Trump, verso il quale il president-elect sarebbe perfino disposto di concedere un’uscita onorevole dalla scena. Niente incriminazioni. Niente processi. E’ chiaro che, se dovessero moltiplicarsi segnali prevalentemente in quella direzione, la luna di miele con il salvatore dal trumpismo si sognerebbe molto velocemente.