In questi giorni di febbraio a Oslo continua a nevicare, soprattutto la sera, e al risveglio un cielo color piombo avvolge la città, e sembra quello di un lungo letargo e un assedio che dura da mesi, mentre la coltre bianca addensata sulle strade abbacina e disorienta. Dal complesso di case sulla Karl Staaffsvei devo prima raggiungere la stazione della metropolitana di Helsfyr, camminare sulle strade ghiacciate e poco transitate, superare il palazzo del ghiaccio dove scivolano ragazzi volanti con in mano le racchette, e raggiungere il centro, poi con il bus 54 arrivare in poco tempo nel quartiere di Grünerløkka. Sceso alla fermata, continuando a camminare lungo i marciapiedi, mi trovo davanti ad un grande palazzo con la scritta Vulkan, e prima ancora un parco completamente ricoperto di neve, dentro il quale scorre l’Akerselva, il fiume esuberante che sembra un torrente alpino e divide la città ricca da quella meno abbiente (nella prima l’aspettativa di vita è più alta di 9 anni e 8 mesi). Il ghiaccio d’inverno cancella tutto, la città verde, piena di alberi, scopre solo gli edifici, e anche le strade diventano grigie, con la neve scurita ai lati che diventa una fanghiglia. Prima di attraversare e raggiungere l’edificio con la scritta rossa, sulla destra, resto attratto da alcune casette in legno dai colori pastello in una stradina in salita che affronto d’istinto, sedotto dalla loro fascinosa fisionomia, e mentre cammino piccoli fiocchi di neve mulinano nell’aria. Di lato alla via, gli orti di città sommersi dal ghiaccio, carriole e vanghe, pale che spuntano dal manto spesso nei prati invisibili senza colori. Queste piccole case di legno con i camini fumanti, le finestre stile inglese, le scale d’ingresso con le ringhiere protettive fuori, stanno in due strade, Damstredet e Telthusbakker, un quartiere storico di edifici risalenti alla fine del 1700, primi del 1800, che si trovano vicino alla chiesa medievale in pietra chiara di Gante Aker Kirke, che scorgo in alto, alla fine della salita. Un tempo era un sobborgo operaio, poi residenza di poveri diseredati, quando la vecchia zona industriale della città era in stato di abbandono e il fiume inquinatissimo e sporco, mentre adesso è spesso residenza di artisti. Sopra gli orti, dove si trova la scuola per l’infanzia Andersen, c’è un parco giochi, anche quello in parte cancellato dalle nevicate di questi giorni, con una staccionata fatta di legni che sono diventati matite di diversi colori.

QUANDO RICONQUISTO LA STRADA, entro nel palazzo che una volta ospitava una fabbrica. All’ultimo piano c’è un ristorante giapponese, dove si possono mangiare a prezzi abbordabili dei ramen squisiti, e in quello sottostante il negozio italiano, gestito da due ragazzi romagnoli, che però sanno poco di questo posto, si limitano a dire che se ti affacci dal ponte sul fiume «vedi delle trote salmonate gigantesche», dal modo semiserio come lo dicono resto un po’ interdetto ma m’informeranno più tardi che è proprio così, il corso d’acqua che alimentava fabbriche tessili, segherie e officine meccaniche oggi è stato bonificato, e oltre ai pesci, girando a piedi per il parco, o sostando sopra il ponte Cuba, si possono vedere le anitre selvatiche che nuotano sulla superficie libera dell’acqua, dove non è accerchiata dal ghiaccio e dalla neve. Invece al pianoterra c’è il parcheggio che può ospitare 102 veicoli elettrici nei terminali flessibili per la ricarica, è il più grande d’Europa, e un angolo di colore verde dove nelle rastrelliere metalliche sono infilate le biciclette. Sì, perché in Norvegia le vetture elettriche sono in numero maggiore di quelle alimentate a benzina e diesel, il 52% del totale per l’esattezza. Nel centro storico di Oslo, che la Commissione Europea ha designato come la European Green Capital 2019, entro due anni non transiteranno più automobili, c’è un progetto che prevede la realizzazione di oltre 60 chilometri di piste ciclabili e incentivi statali per l’acquisto di biciclette elettriche.

VULKAN, UN TEMPO POLO INDUSTRIALE dell’industria pesante, e oggi la zona più ecologica della città, con un’architettura progettata con criteri innovativi per limitare l’impatto ambientale, dove una centrale elettrica costruita con geo pozzi profondi oltre trecento metri, rifornisce di energia tutti i locali pubblici e le abitazioni del quartiere. I Vulcan Bigård, invece, sono due grandi alveari urbani progettati dallo studio Snøhetta, che hanno una forma architettonica eccentrica che risalta nell’insieme degli altri edifici, sono fatti in legno color miele, come quelli naturali, e dentro possono viverci anche 150000 api. L’idea di istallare qui al centro di Oslo, in una metropoli scandinava, i due alveari, ha indubbiamente anche un significato fortemente simbolico, perché intende sensibilizzare la gente sul rischio di estinzione di questi preziosissimi animali legati alla produzione di prodotti alimentari e, negli ultimi anni, usati anche per monitorare l’inquinamento atmosferico e delle zone industriali.

Nell’edificio dell’ex Bellona, una fabbrica che una volta produceva macchine per cucire, i pannelli solari che riscaldano l’acqua, riescono ad erogare tre quarti dell’energia utilizzata di norma. Uscendo dai parcheggi e scendendo per la via principale, piena di locali, visito un negozio per artisti, che vende tempere, tele, album da disegno. Dietro il bancone Lisa, la timida commessa dal viso delicato e gli occhi penetranti, che indossa una maglietta rossa e sopra un golfino grigio, mi guarda intimidita. È molto contenta di lavorare qui, in un quartiere che rispetta la natura, «tutti fanno la raccolta differenziata, completa dell’immondizia», dice a bassa voce, «gli hotel riutilizzano l`energia dalle celle frigorifere e degli ascensori, e i forni usano esclusivamente prodotti biologici. In tutto questo, c’è l’idea di riuscire a mantenere un aspetto sostenibile, qui a Vulkan sta nascendo il nostro futuro», dice con un certo entusiasmo. L’Hendrix Ibsen, invece è un bar a la moda forse un po’ troppo chic, che oltre a servire un ottimo caffè e delle birre selezionate, mette in vendita libri e dischi al vinile. Un altro luogo da visitare, fatto con arredi tipicamente nordici in legno, è il Vulkan bar, con un ampia terrazza panoramica molto suggestiva con vista sulla città. Più avanti, al centro della via c’è un edificio completamente dedicato alla ristorazione, il Mathallen, e vicino all’ingresso il parcheggio per cani, tre comodi box di metallo con la chiusura in plexigas, dove prima di entrare si possono lasciare in custodia gli animali.

Varcata la soglia, mi appare un mercato con dentro tutti stand affollati dove si possono acquistare o degustare prodotti, come la carne di balena, oppure il merluzzo essiccato e la salsiccia di renna, c’è il fornaio, salumiere, macellaio e pescivendolo, mentre lo attraverso un uomo robusto con la parannanza sta tagliando un grande pesce, in fondo c’è il negozio italiano di gelati, molti nostri emigrati che vennero qui negli anni ’50 e ’60 li vendevano nei banchetti, per le strade. Uscendo, proprio davanti alla Casa della danza, mi fermo a parlare con una donna esile dai capelli ricci biondi e il viso scarno, un paio di occhiali ovali sul naso, molto sorridente e socievole che si chiama Cristiana. «È un posto straordinario», dice, «perché qui si mangia cibo ecologico di grande qualità, e poi Vulkan sta al centro della città, si può raggiungere a piedi senza usare la macchina, facendo delle lunghissime passeggiate lungo la strada che costeggia il fiume, è l’essenza dell’ecologia», conclude facendo una smorfia, prima di incamminarsi sparendo alla fine della via.