«Da nebbie/ lontane/ una consumata/ e/ delicata/ trama di/ lacrime/ ha/ brividi/ d’argento» scriveva Beatrice (Bice) Lazzari (Venezia 1900-Roma 1981) a Venezia nel ’56. Il grigio, il bianco, il verde, il nero… colori che si ritrovano nelle poesie che l’artista scrisse per tutta la vita. I suoi versi parlano di aria bianca di stupore, giovani colombe impazzite di sole, bianche farfalle, inquiete realtà di nascoste voci cantate dall’albero verde, puri cristalli che s’inseguono sull’inquieta superficie del mare, così come del profumo di prato, del gioco millenario delle foglie sull’asfalto nero. Gli stessi colori, in un abbraccio corale che ne include altri, si ritrovano nei suoi meravigliosi bozzetti di tessuti e tappeti, affreschi e mosaici, nei disegni, nei dipinti.

Ma è il rosso il colore che amava di più. Rosse sono le linee presenti in Astrazione di una linea n. 2 (1925), Taglio rosso (1930), Segnalazione rossa (1958), Segni rossi (1959), Punto nero (1962) e, tra le altre opere, ‘Misure’ Doppio Ritmo (1967) nelle collezioni del NMWA – National Museum of Women in the Arts di Washington che nel 2013 ha organizzato la mostra «Bice Lazzari: Signature Line». Erano di lana rossa anche i maglioni che le faceva ai ferri la sorella minore Nini (Onorina) che sposò Carlo Scarpa (porta la firma dell’architetto anche il progetto della tomba della famiglia Rinaldo-Lazzari-Oliva nel piccolo cimitero di Quero dove è sepolta anche l’artista) e rosso, naturalmente, è il torchon di corallo che «illumina» il suo abito nero sul manichino, accanto all’autoritratto del ’29 sul cavalletto, in fondo all’ambiente dalle capriate di legno in via di San Giacomo, a Roma, sede dell’Archivio Bice Lazzari. Accanto alla finestra c’è lo schedario con le schede delle opere compilate dalla nipote Maria Grazia Oliva Lapadula, proprio davanti alla scrivania con le matite, il divano con i cuscini disegnati da Bice, qualche fotografia in bianco e nero, la tenda che realizzò proprio per la cameretta della nipote a cui era particolarmente legata, i dischi e i suoi libri: le raccolte di poesie di Jacques Prévert, Walter Whitman, Friedrich Hölderlin e anche le Citazioni del presidente Mao Tse-tung.

In realtà, lo studio di Bice Lazzari era nell’abitazione in cui visse a Roma con l’amato marito Diego Rosa, in via Angelo Brunetti, ma alla sua morte la nipote chiese l’autorizzazione per utilizzare un antico passaggio adiacente alla propria abitazione e ne fece la sede dell’archivio che nel 1999 la Soprintendenza Archivistica per il Lazio ha dichiarato di notevole interesse storico, sottoponendolo a vincolo di tutela. «Mamma era sua nipote. Si è sempre dedicata alla zia Bice come una figlia. L’anno in cui è morta, il 1981, è stato particolarmente difficile per lei perché a maggio ha perso il marito – nostro padre Attilio Lapadula – e a novembre lei.

Malgrado ciò ha avuto la forza di recuperare tutte le opere e di catalogarle, promuovendo moltissimo il suo lavoro», racconta Nicoletta Lapadula insieme alla sorella Donatella. Oggi dell’archivio è responsabile sua figlia Maria Isabella Barone che con altrettanto amore e dedizione porta avanti il lavoro iniziato dalla nonna con l’obiettivo di realizzare a breve il catalogo ragionato. Su questa straordinaria artista che si è formata prima al Conservatorio Benedetto Marcello e poi all’Accademia di Belle Arti di Venezia (studiò pittura e disegno diplomandosi nel 1918 in Disegno Ornamentale e Decorazione) è stato realizzato anche il documentario Bice Lazzari (60’, 2022) prodotto da Mompracem (regia e sceneggiatura di Manfredi Lucibello e voce narrante di Benedetta Porcaroli) che ne inquadra il rigore e la fedeltà a quelle intuizioni che la portarono a sperimentare tecniche e linguaggi nella più totale autonomia artistica. In particolare l’astrattismo, già a metà degli anni Venti, e poi dopo un periodo informale il passaggio, tra la metà degli anni ‘60 e la fine degli anni ’70, al minimalismo astratto. Aspetti sottolineati anche attraverso la mostra personale «Fra spazio e misura» (a cura di Paola Ugolini) a Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Venezia (fino al 23 ottobre). «Era una donna incredibilmente indipendente che non si lasciava influenzare dalle tendenze», continua Donatella Lapadula.

Nelle Note Autobiografiche è la stessa Lazzari a ricordare i periodi più difficili, ma anche gli entusiasmi, come quando parla della guerra e del matrimonio: «Nel 1944 siamo andati prima a Venezia e poi a Milano per trovare lavoro, Roma era una città assediata, il vitto era molto scarso ed il lavoro mancava. A Milano abbiamo trovato un caro appoggio dall’arch. Giò Ponti, che prese mio marito nel suo studio e commissionò a me subito delle stoffe, più tardi trovai Ciuti (esperienza negativa perché eravamo come due galli nello stesso pollaio), vita durissima, finita la guerra siamo ritornati a Roma, con una prospettiva altrettanto dura (eravamo scappati da Milano a causa di tristi ricordi famigliari). A Roma trovammo una sistemazione precaria e come lavoro il solito arrangiamento. Ma l’entusiasmo era grande e non ci siamo scoraggiati, anche se le peripezie per i lavori e per l’alloggio sono state lunghe. Nel 1947 ricominciai un lavoro più organico e continuativo, disegnando ed eseguendo pareti per locali pubblici e case private. Però non ero mai soddisfatta perché ancora non avevo trovato una mia realizzazione in campo artistico. Ricominciai decisa a rinunciare a tutto nel 1949, dico ricominciare perché io operavo sin dal 1925 nel campo astratto. Mi misi sotto come una dannata per recuperare il tempo perduto e sbrogliare quella matassa imbrogliatissima che aveva lasciato sedimenti profondi. Lavoro durissimo, pieno di entusiasmi, pieno di incognite, ma lavoro per me vitale». Alti e bassi, gioie, scoramenti sino alla prima mostra (1951) alla Cassapanca, che era il preludio di una più significativa, cosa che avvenne nel 1954 alla Schneider (…)». Tra successi e delusioni, Bice Lazzari non smise mai di esporre le sue opere in gallerie importanti (dalla veneziana Il Cavallino a La Salita a Roma), chiudendo definitivamente – nel ’59 – con la pittura tradizionale ad olio (a causa di un’intossicazione) per sperimentare l’informale materico e poi ricominciare, nel ’64, «dalle aste come i bambini, cioè feci atto di umiltà. Rinunciai alla materia troppo duttile e facile da incidere e lasciare quelle tracce di segno che io adesso determino con poco colore e più rigore (…). Questi segni più puri e calibrati determinarono definitivamente e poeticamente il mio modo di operare in seguito. Nel 1968 anno contestativo della Biennale di Venezia, io vinsi ex-equo il premio di grafica alla prima Biennale Romana. Contestavo anch’io, cioè dimostrai che su una superficie bianco-tempera di tela, adoperando soltanto matite si poteva dare una emozione poetico-visiva con mezzi elementari. Procedendo su questa strada scopersi le misure, i segni, gli spazi delimitanti le superfici ritmicamente ricavati.» Malgrado la malattia agli occhi che la portò alla semi-cecità, l’artista lavorò fino all’ultimo. «Nella fotografia scattata da Sergio Bucci nel suo studio, il giorno in cui è morta, si vede il suo tavolo con tutte le matite in ordine.» – afferma Maria Isabella Barone – «Faceva dei segni sulla tela che le permettevano di andare dritta anche senza vedere. Sembra quasi un esercizio di precisione».