Com’è difficile, in questi giorni, non sentirsi confusi, logorati, a volte furibondi – a due anni dall’inizio della pandemia, e pur con l’inestimabile risorsa dei vaccini, la vita di tutti continua a procedere sotto il segno dell’incertezza, se non della paura: ogni progetto, dal più piccolo al più grande, porta con sé una quantità di punti interrogativi ai quali, almeno per ora, nessuno saprebbe dare risposte certe. Da qui, da questa sensazione condivisa in ogni angolo della terra, la giornalista Katrya Bolger prende avvio per un articolo uscito sulla rivista canadese The Walrus in cui descrive il ruolo che i libri possono avere, non certo per risolvere la situazione, ma per mitigare l’inquietudine, per offrire strumenti di comprensione e di conforto.

Parliamo insomma di quella che con una qualche pomposità viene definita anche in Italia biblioterapia, un termine, precisa Bolger, usato per la prima volta nel 1916 (non a caso, probabilmente, durante la prima guerra mondiale) in un articolo satirico su The Atlantic. Ma non c’è nulla di pomposo nell’idea, del resto molto antica, che leggere sia, o possa essere, di notevole aiuto nell’affrontare le avversità dell’esistenza.

Sicuramente lo è stato per Anne Boulton, docente alla Laurentian University nell’Ontario, che – come racconta Bolger – ha trovato nel percorso di letture elaborato appunto con l’aiuto di un terapeuta il sostegno di cui aveva bisogno. Certo, «i libri sono stati solo una parte del processo», ma hanno fornito a Boulton «punti di partenza per conversazioni che l’hanno portata a riflettere sui suoi problemi da prospettive nuove», anche perché «il filtro della letteratura consente di guardare in modo meno duro, meno esposto, alle questioni più dolorose».
E sempre nei nostri tempi pandemici non si è trattato di biblioterapia, ma senza dubbio ha giovato a tante persone l’esperimento ideato dalla scrittrice statunitense di origine cinese Yiyun Li, i cui libri sono tradotti in Italia da Einaudi e più di recente dalla casa editrice NN, che ne ha proposto fra l’altro nel 2018 il memoir Caro amico dalla mia vita scrivo a te nella tua e lo scorso anno il romanzo Dove le ragioni finiscono. A clausura appena cominciata, nel marzo 2020 Yiyun Li, con l’aiuto della casa editrice nonprofit A Public Space, ha avviato una lettura collettiva di Guerra e pace. Inatteso e gigantesco è stato il successo del progetto che, intitolato #TolstoyTogether e condiviso attraverso incontri Zoom e via Twitter (a cui in realtà la scrittrice non è neppure iscritta), è stato poi replicato ed è diventato ora un libro, una sorta di conversazione globale intorno al capolavoro di Tolstoj.

Su The Millions, in una intervista al giornalista John Maher, uno che su sua stessa ammissione non ha mai letto Guerra e pace e forse non lo leggerà mai, Yiyun Li – che invece Guerra e pace lo legge tutti gli anni, in alternanza con Moby Dick, sei mesi per ciascuno – ha raccontato com’è nata l’idea: «L’isolamento era appena cominciato, mi sono detta che in un momento di grande incertezza sarebbe stato bello invitare le persone a leggere un libro lunghissimo e che la fine della lettura avrebbe coinciso con la fine della pandemia».
Illusioni perdute! Ma l’esperienza ha rivelato alla scrittrice che in un gruppo di lettura, soprattutto così allargato, le sorprese sono infinite: «C’è chi guarda alle finanze della famiglia Rostov e si accorge che ‘stanno perdendo un sacco di soldi perché hanno 200 cani nella loro tenuta’ e chi legge Guerra e Pace attraverso la fisica quantistica. Non si legge per ottenere un consenso, ma per arrivare a qualcosa, e questo qualcosa è l’aspetto più interessante».
Non è una terapia, ma insomma, quasi.