I frequentatori – perlopiù giovanissimi – di TikTok non sono per forza analfabeti, annuncia la giornalista Elizabeth A. Harris in un articolo uscito l’altro giorno sul New York Times. Alcuni di loro, spiega, leggono libri interi e postano i loro brevissimi video, anzi i loro BookTok, dedicati ai testi che hanno amato maggiormente. Non solo: a volte capita che questi libri, raccontati nel tempo di uno sternuto, guadagnino nuova vita e un numero di lettori maggiore rispetto al periodo in cui sono usciti. Per esempio The Song of Achilles, di Madeline Miller, riscrittura gay-amorosa dell’Iliade, attualmente vende 10.000 copie a settimana, nove volte di più rispetto al 2012, l’anno in cui il romanzo è stato pubblicato e ha anche vinto un premio di narrativa piuttosto noto, l’Orange Prize.

Così adesso, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, sulle pagine culturali non si fa altro che parlare di TikTok, e delle case editrici pronte a tradurre in dollari o in euro questa nuova tendenza, e pure delle grandi potenzialità di un social che fino a ieri veniva solitamente descritto come abominevole. (Che da TikTok qualcosa si potesse ricavare nell’ambito della didattica, in realtà qualcuno lo aveva capito: le lezioni di inglese in pillole non si contano e c’è un account, «La setta dei poeti estinti», che è riuscito a spremere in 27 secondi la spiegazione del paradigma dei verbi latini).

E in fondo, perché no? Le strade dei libri sono infinite, e possono passare anche per una manciata di immagini in movimento sul piccolo schermo di un telefono. Per lo stesso motivo, però, ci sarà utile non dimenticare l’esistenza e la vitalità di un’istituzione fondamentale, ieri come oggi, per la diffusione della lettura: la biblioteca. E lo fa molto bene la rivista spagnola online Contexto in un «manifesto in favore delle biblioteche (extended mix)» firmato dallo scrittore basco Iban Zaldua, che solo per motivi di spazio non riportiamo per intero.

Ecco, però, le risposte principali alla domanda: perché sosteniamo le biblioteche? La prima, tautologica, ma meno scontata di quanto appaia: «perché sono piene di libri». La seconda, preziosa: «perché sono oasi privilegiate di silenzio». La terza, mai abbastanza sottolineata: «perché sono aperte a tutte e tutti». (Scrive Zaldua: «A mano a mano che il divario di ricchezza – e anche il divario di ricchezza digitale – si allarga in questa fase del capitalismo neoliberale, le biblioteche sono diventate un rifugio, fino a diventare a volte una ramificazione dei servizi sociali. E anche se questo è un brutto segno – perché non indica nulla di buono sul modo in cui organizziamo la nostra società – è allo stesso tempo qualcosa da prendere in considerazione – perché ci dice quanto valga la biblioteca come istituzione»).

E poi, via via: perché sono gratuite; sono simbolo di un patrimonio pubblico; hanno imparato a funzionare in rete; si dedicano, sia pure indirettamente, alla critica letteraria; sono un luogo dove, senza voltare le spalle alla rivoluzione digitale, la cultura analogica resta viva; ci offrono un’opportunità imbattibile per risparmiare spazio in casa; sono uno dei principali veicoli di socializzazione della lettura (e di conseguenza «sono posti mitici per flirtare»); hanno qualcosa di caotico e al tempo stesso sono ordinate; e infine «perché non servono a niente».

In conclusione: «In un momento in cui ci appelliamo all’utilità immediata per giustificare la spesa pubblica – strade, alta velocità, sanità, pensioni, esercito… – è confortante continuare a spendere soldi, sempre insufficienti, per istituzioni il cui unico obiettivo è espandere la nostra capacità di piacere e conoscenza».
Non si potrebbe dire meglio di così.