La signora dell’arte cubo-dadaista, Louise Nevelson, sarà in mostra nella capitale, presso la Fondazione Roma, ancora per una decina di giorni. Ideatrice di enormi strutture lignee prevalentemente realizzate in bianco o nero, e in regale vernice dorata, Nevelson dissimula nel rigore della sua scelta monocromatica il calore della materia in cui intaglia le sue opere. Ad eccezione delle poche creazioni in legno naturale ispirate all’arte povera, nell’eleganza dei suoi assemblaggi a prevalere sono sempre gli estremi e, se il bianco è «festivo» come il sole, nella sua scultura è il nero a fare da padrone perché, come si legge in uno dei suoi frammenti conservati negli archivi di arte americana dello Smithsonian Institute, «la luce del giorno ha una forma, invece il buio è una cosa sola».
Vicina ai poeti del Black Mountain (da Creeley a Olson), Nevelson usò anche la scrittura per raccontare la sua vita da «Queen of the black black»: così si autodefinì in una poesia pubblicata su Art News nel 1961.
Dama solitaria dalle lunga ciglia di zibellino che, come scrisse Edward Albee in occasione della retrospettiva del 1980 al Whitney, nascondevano grandi occhi «di profondo nonsense», fu inclusa da Frank O’Hara tra le figure più rappresentative della mostra del 1965 Modern Sculpture Usa. Ma, in realtà, gli altri scultori erano molto più giovani di lei che, amica di Bette Davis e Robert Rauschenberg, anticipò l’espressionismo astratto senza farne parte. Come dichiara nel libro-intervista curato dalla sua assistente Diana MacKown (Dawns and Dusks, Scribner, 1976) fu nell’Europa delle avanguardie che decise di «capire il cubo» quale «chiave di una stabilità» capace di tradurre «natura in struttura» poiché «è nel preciso istante in cui il cerchio rientra in un quadrato che si raggiunge la piena consapevolezza».
Proprio a partire dalla lezione cubo-dadaista, Nevelson diede vita a una versione personalissima delle «scatole» magiche: dalla boîte di Marcel Duchamp a quelle americane di Joseph Cornell, raccolgono in cornici geometriche l’estrema disarticolazione Dada e la creativa eterogeneità degli ambienti Merzbau. Jean Arp pone Schwitters all’origine dell’asimmetria studiata delle sue architetture, che si trasformano nella moresca Cattedrale celeste in cui lo scultore, in una lirica del ’60, vide «la facciata d’America».

Collezione a prova di nubifragio

Nata Berliawsky da famiglia ebrea venuta da una Kiev russificata dagli zar, Nevelson raggiunse piccolissima nel Maine il padre commerciante (ovviamente in legnami), e a nove anni, davanti a un gesso di Giovanna d’Arco, decise che sarebbe diventata una scultrice («e non voglio che il colore mi aiuti», chiarì programmaticamente di fronte a un’attonita bibliotecaria). Fu questa inflessibilità a salvarla dall’impulso distruttivo a cambiare di colpo vita e luoghi. Ancora giovanissima sposò, senza quasi conoscerlo, un agente di Wall Street russo-lettone di vent’anni più vecchio di lei, che lasciò dopo un figlio e molte crisi esistenziali per dedicarsi alla ricerca artistica prima in teatro, e poi a Monaco, dove studiò col pittore bavarese Hans Hofmann, poco prima che espatriasse in America, in fuga dal nazismo.
Nessun trauma apparente in quella separazione, perché la priorità dell’arte si coglie sempre nelle dichiarazioni di Nevelson, spesso caustiche e autocelebrative. È a Narcissus che dedica un’altra poesia: «Ho osato guardare/ E mi piace ciò che ho visto./Bene, io bene, io bene io, per me». E poi ancora, «guardare non significa aver visto/Il vero fine è guardare senza esser visti…/Ho visto il luogo della libertà/Ho visto la terra dei liberi…ho guardato nel luogo/dell’inerzia/dentro il silenzio».
Il senso di colpa e il bisogno di risarcire il figlio per la sua assenza la inseguirà per tutta la vita, senza però riuscire a fermarla: «Figlio mio perché doveva succedere che noi due diventassimo un tale mistero per entrambi?…Quando cresci, non rimproverarmi per le condizioni in cui sei cresciuto. Perché chissà che non riesca a volare più in alto… e forse mai in alto abbastanza come avrei voluto fare…Sono ancora in mare aperto….l’umanità è così lenta… e non so in quale terra salpare, vedo solo che qui veneriamo idoli cadaverici, non realtà…Ho raggiunto il senso della distanza…come può essere? Dove mi sta portando?…Sì temo proprio/di avere una distanza…Il grande oltre mi chiama».
Il racconto di viaggio che informa le sue sculture è la fiaba nera di un percorso accidentato che, come si legge in una «sintesi» del 1955, le impone di andare, perché «un artista creativo non può restarsene nel suo cortile». È del 1933 la prima mostra di questa Sposa della Luna Nera la quale, sul modello celibe duchampiano, «si reca in molti continenti…/Le immagini sui muri sono le immagini che lei ricorda».
L’importante retrospettiva allestita a Palazzo Sciarra da Bruno Corà (aperta al pubblico fino al 21 luglio) ritrova la successione di «atmosfere e ambienti» ricostruiti al Whitney Museum nel 1980. Quello che Nevelson considerava «il museo americano per eccellenza» (storicamente, anche sede della sua prima retrospettiva nel 1967) possiede tuttora il maggior numero delle sue opere, a prova di nubifragio grazie agli interventi di ristrutturazione contro gli effetti devastanti del cambio climatico. Dall’allestimento del Whitney dell’80, Corà pare assumere il modello di percorso meandrico che dispone le opere in una tortuosa successione di stanze monocromatiche, in base a un movimento che rimanda alle torsioni metalliche e alla fuga convessa delle creazioni metamorfiche e, solo di rado, antropomorfe della scultrice. L’unico Personage in mostra ha una minacciosa schiena orlata di aculei, e appare goffamente assorto sulle parti dislocate di sé.

Metafisici muri

Così il suo viaggio oggettuale si satura di elementi eteromorfi tra i geometrismi tormentosi di un cervello in piena che raggiunge, nell’accostamento dell’incongruo, armonie insperate. I «ready-made» di Nevelson, non meno assortiti dei collage di Braque e di Jackson Mac Low, trovano forme diairetiche e circolari e, nell’assorbire in forme inconsuete misteriose lettere e alfabeti rovesciati, tradiscono la cifra concettualista degli assemblaggi di Mac Low e Balestrini.
Ma ciò che li distingue dal modello generativo duchampiano è la scelta ambiziosa della scultrice di dare ad essi un’imponente dimensione architettonica, come aveva fatto Harriet Hosmer nella prima metà dell’Ottocento, quando reinterpretò le squisitezze del neoclassicismo canoviano nel gigantismo del suo omaggio a Thomas Hart Benton.
Proprio l’imponenza allegorica di quelle colonne greche, totalmente emancipate da ogni funzionalità, spinse Philip Johnson nel ’59 ad affiancarle idealmente alle sue architetture postmoderne. Si pensi ai «muri» che rivestono intere pareti in oro translucido, debordanti di coni metafisici e di nicchie che accolgono un’idea ipotetica di vaso e di cassetto, quasi a non voler tradire l’attesa di una familiare oggettualità.
È quanto avviene nell’Omaggio all’universo (1968) che si offre al visitatore come cornice accogliente per amichevoli conversazioni a mezza voce, facendo convivere forme apparentemente domestiche con le criptiche simbologie che l’autrice annota puntualmente nel suo breviario compositivo. Perché è sempre nel suo «diario dei sogni» che Nevelson attribuisce alla vera sacralità una qualità bizantina, alla belligeranza un tratto assiro, alla morte rituale una realtà atzeca, all’eternità una prerogativa egizia, alla dominazione sovietica la continuità dello stato, all’inflazione una declinazione fascista, alla procreazione il carattere di un’ossessione nazista, al potere un volto americano, allo stile greco la chiave di un movimento liberato dalla rigidità degli antichi, per farsi arte individuale nel gotico che dissolve il potere sull’universo dell’uomo rinascimentale.
Negli scritti e frammenti di Nevelson, ogni architettura trova una matrice archeologica, con la presenza interrogativa di gigantesche foto in bianco e nero intente «a guardare il mondo attraverso qualcosa di distillato e mai diretto», come nell’allestimento del 1965 di Tiny Alice di Edward Albee. Proprio il drammaturgo americano, che accompagnava spesso la scultrice a raccattare per le strade di Little Italy legna abbandonata da far rinascere in una serie di pezzi unici (stele, colonne, monoliti), sottolineò l’anima ecologica di quest’artista Wpa, figlia della Grande Depressione, che aveva imparato a non sprecare niente nella sua raffinata pratica di riciclo architettonico.
Si pensi alle pesanti balaustre pattumate da una scuola di quartiere, subito recuperate alla furia assemblatrice di Nevelson, con il contributo muscolare dei pazienti artigiani armati di fiamma ossidrica e attrezzi da fabbro, che lei guidava con tono fermo e materno. Erano queste masse monocolori la sua risposta all’arguzia filiforme di Alberto Giacometti e alla minuzia compartimentalizzata dell’arte di Eduardo Paolozzi che le aveva insegnato a scomporre ogni oggetto in minuti elementi meccanici da ripartire in un ordine astratto spinto ai confini dell’action painting nelle guache di Ad Reinhardt.

Librerie per labirinti

È il disordine del primo modernismo che Nevelson riorganizza nelle sue fantastiche «biblioteche ambulanti di anacoreta», come le definisce acutamente Arp, tra gli incassi impossibili di una visione insieme arcaica e labirintica, ludica e selvaggia, che prende ora le forme tentacolari di una foresta tropicale carica di simboli Maya, ora quella metafisica di «giardini lunari», tra i coni d’ombra e gli alberi d’alluminio che l’artista raduna nell’intrico di costruzioni che Albee definì vere e proprie odissee.
Come l’arte scritto-pittorica di altre surrealiste espatriate del suo tempo – da Kay Sage, Dorothea Tanning, da Leonore Fini a Leonora Carrington – la scultura di Nevelson è un’arte solitaria e femminile. La sua serie di figure muliebri non allegoriche finisce tutta nelle chine figurative a cui la mostra al Museo Sciarra dedica uno spazio piccolo ma significativo. La concava plasticità di questi gonfi nudi di donna ricordano certi levigatissimi monovolumi di Jean Arp, in omaggio a un mondo pensosamente consapevole che «la linea di una caviglia può far girare il mondo», ma anche perplesso come nel disegno cui Don DeLillo dedica nel 2003 il racconto Female Nude by Louise Nevelson, scritto per il cinquantesimo anniversario della Paris Review.
Il racconto riprende uno schizzo del 1932, l’anno in cui Nevelson incontrò l’artista messicano Diego Rivera, e coglie la sorpresa di una modella che posa nuda per una pittrice con un libro aperto sulle ginocchia. In base alle istruzioni ricevute, non dovrà per nessuna ragione guardare. Ma la composizione del quadro è lunga e la modella approfitta degli istanti in cui la pittrice si ferma a correggere un tratto sbagliato per sbirciare il contenuto del libro. E allora legge di una donna in posa in uno studio d’artista sulla tredicesima strada, e sbircia la china sottile che proprio lei sta originando, e raffigura una donna con lo sguardo nel vuoto, con un libro aperto sulle ginocchia semplicemente firmato «Nevelson». La Klara Sax che in Underworld va incontro al suo futuro di assemblatrice di testate nucleari dimesse nel deserto dell’Arizona è molto probabilmente ispirata all’artista coraggiosa che nel 1972 installò proprio a Scottsdale, in Arizona, il suo Atmosphere and Environment XIII (Windows to the West).