Netanyahu contava sul confronto televisivo con Benny Gantz per tentare di capovolgere un quadro che per lui si è fatto più complicato dopo l’annuncio che il 17 marzo, appena due settimane dopo le elezioni, si aprirà a Gerusalemme il processo che lo vedrà sul banco degli imputati a difendersi da accuse di corruzione, frode e abuso di potere. Invece il match elettorale tra il primo ministro e lo sfidante non ci sarà. Il capo dell’opposizione e leader del partito (presunto) centrista Kahol Lavan (Blu-Bianco) ha rifiutato l’invito di Netanyahu a prendere parte a un dibattito elettorale in diretta televisiva. «Non lavoro per lui. Non andrò al confronto con lui», ha detto Gantz convinto che si tratti «solo di uno stratagemma che non intendo assecondare». Il leader di Kahol Lavan accusa Netanyahu di dedicare tutti i suoi sforzi per sventare il rischio di una condanna al processo che lo attende. «Noi però non gli consentiremo di sfuggire alla giustizia», ha promesso ieri. La reazione di Netanyahu è stata immediata: «Gantz teme il confronto. Israele ha bisogno di un leader forte e non di un codardo. Se Gantz teme di confrontarsi con il primo ministro come potrà mai essere all’altezza delle enormi sfide con cui Israele deve misurarsi?».

 

In Kahol Lavan ieri si discuteva. Non tutti condividevano la scelta di Gantz. Ma è concreta la possibilità che l’invito al dibattito televisivo solo sia un modo per spostare l’attenzione dai guai di Netanyahu con la giustizia. L’iniziativa del capo del Likud è la prima in tal senso dal 1996. Netanyahu da allora ha sempre rifiutato di partecipare a dibattiti televisivi con i suoi sfidanti e la sua improvvisa disponibilità è sospetta. Per il primo ministro le cose hanno preso una brutta piega. L’annuncio dell’inizio del processo a suo carico tra meno di un mese potrebbe spingere gli elettori di destra ancora indecisi a non votare per il premier e a scegliere le liste ultranazionaliste indebolendo il partito Likud già sotto nei sondaggi. E quelli meno estremisti ad affidarsi all’“uomo forte” Gantz.

 

Il capo di Kahol Lavan, che è un ex capo di stato maggiore che ha ridotto Gaza in macerie nel 2014, sta facendo di tutto per mostrare un volto di destra in questa campagna per il voto del 2 marzo, la terza in Israele meno di un anno. Si è detto pronto ad applicare il Piano Trump, contestato e respinto dai palestinesi perché accoglie solo le richieste di Israele. E ha escluso di poter formare una coalizione di governo assieme alla Lista araba unita di cui fanno parte i partiti dei palestinesi con cittadinanza israeliana.

 

Gantz prova ad erodere la base di consenso del Likud ma è improbabile che, dopo il 2 marzo, abbia alla Knesset un numero di parlamentari sufficiente per assemblare una coalizione di governo. Un sondaggio pubblicato dal quatidiano Haaretz, assegna a Gantz una vittoria risicata: 35 seggi contro i 33 del Likud. E pur alleandosi, come vogliono le ultime indiscrezioni, con Yisrael Beitenu, il partito nazionalista guidato all’ex ministro Avigdor Lieberman, Gantz comunque non avrà una maggioranza se lascerà fuori dal governo la Lista araba.

 

Allo stesso tempo Netanyahu ha bisogno di un miracolo per raggiungere lo scopo di presentarsi il 17 marzo alla Corte distrettuale di Gerusalemme in qualità di primo ministro riconfermato dal voto popolare. Senza il partito di Lieberman, il blocco delle destre nazionaliste e religiose che il premier guida da oltre 10 anni non può arrivare ad almeno 61 seggi sui 120 della Knesset. Lo stallo in Israele difficilmente sarà superato il 2 marzo e ipotizzare nuove elezioni, le quarte di fila, non è fantapolitica.