Ranuccio Bianchi Bandinelli nel terrazzo della sua casa romana di via Arenula, fine anni sessanta

 

Altri tempi, quando alla Rai si vedeva in prima serata un programma intelligente come Io e… di Anna Zanoli. A ogni puntata, un personaggio significativo sceglieva un’opera d’arte, e la conversazione finiva con l’illuminare sia l’invitato che il suo artista preferito. Si vide allora Guttuso parlare della Morte di Marat di David il 15 marzo 1972, un anno e mezzo prima di rimaneggiare quel quadro amatisimo per denunciare la morte del suo amico Pablo Neruda. Si vide Pasolini muoversi fra Orte e Sabaudia parlando della forma della città nel febbraio 1973, un anno e mezzo prima di essere ucciso. E si vide anche, il 29 marzo 1972 con la regia di Luciano Emmer, Ranuccio Bianchi Bandinelli, il maggiore archeologo italiano (e non solo) del Novecento, volteggiare a mezz’aria su una scala da pompieri per commentare da vicino l’opera che aveva scelto, la Colonna Traiana.
Nato nel 1900 da famiglia di antica nobiltà senese (fra gli antenati un papa del secolo XII, Alessandro III), Bianchi Bandinelli percorse una folgorante carriera accademica fra Groningen (Olanda), Pisa, Firenze e Roma, e nell’Italia del dopoguerra ricoprì anche, con onore, il ruolo di direttore generale alle Antichità e Belle Arti (1945-’47). Dagli altri archeologi lo distingueva non tanto l’origine sociale e l’educazione cosmopolita, quanto una mobile curiosità intellettuale, un’amplissima conoscenza non solo del mondo classico ma anche di molte letterature, della storia dell’arte post-antica, del pensiero crociano. Appartato negli anni del fascismo, ebbe però l’infortunio, per la sua perfetta conoscenza del tedesco, di far da guida a Hitler in visita a Roma, e di farlo con l’orbace. Il suo Diario di un borghese è fra le testimonianze più vive della vita intellettuale nell’Italia di quegli anni, e il suo ingresso nel Partito Comunista fu accompagnato da un impegno civile di rara coerenza.
Nei suoi scritti, muovendosi con agio fra arte etrusca, greca e romana, adottò un registro stilistico eloquente nell’argomentazione, preciso nel linguaggio, accurato in descrizioni penetranti ma non pedanti. Era la frequentazione di storici dell’arte come Roberto Longhi che segnava il passo di quel guardare agli Antichi allora inconsueto. Come chi importi oro e diamanti da miniere di un’altra provincia, Bianchi Bandinelli si accostava all’arte antica sentendola non meno vicina di Giotto o Raffaello alla tradizione culturale italiana. Con un altro storico dell’arte suo coetaneo, Carlo Ludovico Ragghianti, ebbe rapporti amichevoli, e poi duratura inimicizia. Per pochi anni diressero insieme (anche con Longhi) una rivista, «La critica d’arte», che già nel convergere dei loro nomi proclamava la piena continuità della vicenda artistica in Italia e in Europa: una scelta di metodo a cui egli rimase sempre fedele.
Quando nel 1975-’76 passai un semestre a Bonn su invito di Nikolaus Himmelmann, Bianchi Bandinelli era morto da poco (gennaio 1975), e fui sorpreso e lieto di trovare la sua fotografia sul tavolo di molti dottorandi tedeschi, accanto a quelle dei maggiori maestri germanici di archeologia. Qualcuno mi chiese se ero stato suo allievo, e fu deluso di sentirsi rispondere che no. Ma quelle foto testimoniavano che Bianchi Bandinelli era in realtà maestro di tutti, anche di chi non lo avesse mai visto di persona. Io lo avevo conosciuto a Pisa quando il mio maestro Paolo Enrico Arias lo invitò a tenere tre lezioni alla Normale, e Bianchi Bandinelli accettò, a condizione che Ragghianti non si facesse vedere nemmeno da lontano. Alla fine della sua prima lezione, gli portai alcuni miei articoli. Li lesse la sera stessa, e il giorno dopo me li commentò puntualmente, e mi invitò a cena. Nulla di più inatteso per me: confuso dalla sorpresa e dalla reverenza che provavo per lui (avevo letto, credo, quasi ogni sua pagina), balbettai, e ancora me ne pento, che avevo già un impegno. Ma quando gli mandai qualche mese dopo un altro articolo, mi scrisse un circostanziato commento e mi invitò a casa sua (via Arenula 21), dove passai poi con lui buona parte di un indimenticabile pomeriggio. Ne ricordo il momento in cui, parlando della sua Siena, mi raccontò di quando in una villa in campagna dov’era con la famiglia vi fu urgente bisogno di un medico e per cercarlo lui, ventenne, corse a cavallo a Siena in piena notte. Ma le porte della città erano chiuse, e dovette farsi aprire prima di entrare. Ne parlava sorridendo con infinito affetto della persistenza, nella sua città, di un costume arcaico, chiudere di notte le porte urbane come quelle di casa. Dopo quella volta, non lo avrei incontrato mai più. Se non nei suoi scritti, e non passa settimana senza che io vi ricorra.
Il mio libro sulla Colonna Traiana (Einaudi 1988, scritto con Adriano La Regina, Giovanni Agosti, Vincenzo Farinella) è un omaggio a quel suo magistero a distanza. Bianchi Bandinelli «inventò», o per meglio dire comprese e battezzò, il «Maestro delle Imprese di Traiano», in una memorabile prolusione alla cattedra fiorentina di Archeologia (1938). Nome convenzionale per un artista anonimo, secondo il costume degli storici dell’arte (come Berenson) che si andava diffondendo fra gli archeologi grazie ai nicknames di pittori di vasi greci inventati da John Beazley (1885-1970): a monte di questo gergo disciplinare era il metodo attributivo introdotto da un medico, collezionista e politico italiano, Giovanni Morelli (1816-’91). Quando scelse la Colonna Traiana a tema della sua prolusione fiorentina, Bianchi Bandinelli voleva asserire con forza l’unità artistica e progettuale del monumento, il maggiore della scultura romana. Completata in pochissimi anni entro il 113 d.C. per celebrare la conquista della Dacia, più o meno l’odierna Romania, la Colonna è avvolta da un fregio a spirale (se potessimo srotolarlo sarebbe lungo 200 metri) dove centinaia di figure raccontano, da una prospettiva romana, l’irresistibile avanzata delle truppe di Traiano ma anche il valore degli sfortunati barbari destinati alla sconfitta. Come risulta da una lettera a Berenson (1946), Bianchi Bandinelli progettava un libro sulla Colonna con foto dall’originale e non da calchi, ma quell’idea non andò in porto prima della mia edizione del 1988.
Nella sua bellissima prolusione sulla Colonna giudizio di stile e misura etica si mescolavano in egual misura, e il Maestro delle Imprese di Traiano balzava vivissimo sulla scena artistica, a dispetto della sua anonimità, come un personaggio in carne e ossa, caratterizzato in primo luogo dalla simpatia per le figure dei barbari, «una umana, popolaresca direi, compassione e comprensione per le figure dei vinti: (…) simpatia, intendo, in senso artistico, perché appunto le figure di morti o morenti, di caduti travolti dai cavalli o pieganti sotto l’impeto compatto delle legioni, dimostrano di essere stata materia prediletta per questo artista, che poteva in tali soggetti dar pieno corso al suo gusto per il rabesco di figure, per le masse aggrovigliate e compatte, per le composizioni di movimenti contrastanti».
Anche nel contemporaneo fregio di Traiano poi collocato nell’arco di Costantino, Bianchi Bandinelli riconobbe eguali accenti: «Fra le figure più belle dobbiamo riconoscervi quelle dei barbari Daci travolti, caduti, morti o moribondi. Figure abbandonate, rotte, ridotte a groviglio di linee riempitive degli spazi liberi sotto ai cavalli, nodi attorno ai quali si ferma il fluire dell’azione e dove lo scultore, sciolto assolutamente da ogni vincolo illustrativo, ha posto uno dei più schietti e originali accenti della sua arte. Tantoché, badando più all’arte che al soggetto (e qui appare ancora una volta la creatrice indipendenza dell’artista, che, pur realizzando un’opera a servizio e a glorificazione dello Stato, impone il proprio linguaggio al proprio tempo (…), mi piacerebbe di più chiamarlo, anziché il “Maestro delle Imprese di Traiano”, il “Maestro dei Daci morenti”».
Già qui compare la tematica dell’opposizione dell’artista al committente, ed è su questa che Bianchi Bandinelli sposterà l’accento nel suo libro Roma, centro del potere (1969): «Si resta dubbiosi se nella evidente simpatia con cui sono raffigurati i Daci e con la quale si insiste sulla loro sempre risorgente guerriglia nei boschi, la grandezza d’animo dei loro suicidi collettivi, la dolorosa miseria delle famiglie contadine profughe, obbligate all’esodo dalle loro montagne, si debba riconoscere un tratto superiore della equanimità di Traiano o non piuttosto l’espressione di sentimenti personali dell’artista, che conosceva direttamente la miseria della soggezione a Roma (…) Così anche la narrazione della fine di Decebalo, il capo dei Daci, acquista il valore di una glorificazione del fiero e sfortunato combattente per l’indipendenza del suo popolo».
La simpatia per i nemici, che era «popolaresca» nel 1938, è diventata una presa di posizione espressamente politica: il linguaggio del grande studioso nel 1969 ha decisamente assunto un tono post-coloniale, e la parola «guerriglia» ne è la spia. Su questo punto insiste un testo del 1973, dove il Maestro della Colonna è artista che «lavora solo per se stesso» (il sottotitolo di quel saggio è Della libertà dell’artista). La simpatia per i barbari da artistica si è dunque trasformata in politica. L’artista (leggi: l’intellettuale) deve sapersi opporre anche al governo che gli dà lavoro.
Non è questo il punto più vitale della lezione di Bianchi Bandinelli: basta leggere il Discorso di Olimpia di un oratore vicino a Traiano, Dione di Prusa (105 d.C.), che egli non cita, per trovarvi una chiave di lettura più persuasiva, lo scontro fra «i Romani che lottavano per l’impero e per il potere, mentre i loro avversari combattevano per la libertà e per la patria».
I Daci, dice uno storico del tempo, erano per Traiano «un degno nemico», che perciò faceva più grande la sua vittoria; lodare il valore di Decebalo era celebrare il trionfo di Traiano.
Ma è in qualcos’altro che brilla la statura di Bianchi Bandinelli : la sua capacità di dialogare col Maestro della Colonna, ma sapendovi vedere al tempo stesso la traccia di problemi del nostro tempo come la ribellione dei popoli oppressi e la necessaria libertà del pensiero.