Il suo tono è sempre dolce e affettuoso con tutti: amici, la compagna lontana, i clienti. Bianca è la protagonista della Casa dell’amore di Luca Ferri – che debutterà questo sabato alla Berlinale nella selezione di Forum – capitolo conclusivo di quella che il regista ha definito la «trilogia domestica», preceduto da Dulcinea (2018) e Pierino (2019), in cui Ferri «documentava» la vita di un pensionato con una folle passione per il cinema e la vita scandita da precisi rituali. La casa dell’amore non esce mai dall’appartamento di Bianca, donna transessuale che per lavoro – fa la prostituta – riceve i clienti a casa e che fra le quattro mura incontra gli amici e si intrattiene con i piccoli gesti ricorrenti della sua esistenza: le chiamate a Natasha, la compagna che sta in Brasile e promette di tornare presto in Italia, le sigarette, una bottiglia di vino, il rituale magico «per le puttane morte».

Come ha scelto di lavorare con Bianca per il capitolo conclusivo di questa trilogia?

La protagonista è una donna transessuale, ma l’obiettivo non era fare un film a tematica LGBT, ci interessava invece trovare una persona che avesse al centro della sua vita la dimensione domestica: Bianca passa il tempo quasi esclusivamente in casa, sia per il suo lavoro che nel vivere l’affettività, il tempo libero. Tutto era iniziato con Dulcinea, girato in 16 mm: un film completamente di finzione, astratto, quasi senza narrazione, patologico, ossessivo, fatto di rituali e gesti. Il secondo è Pierino, girato in VHS, un lavoro del tutto diverso che ha richiesto un anno di lavorazione, anche in questo caso caratterizzato da riprese esclusivamente in interni. E infine La casa dell’amore, tutto in digitale.

Perché i formati cambiano?

Sono scelte che non nascono aprioristicamente, l’idea è sempre quella di cercare di capire qual è il formato giusto in base a ciò che si sta cercando di fare. Il Vhs per esempio mi sembrava naturale per un film completamente «anacronistico» come Pierino. Non è sensato partire con l’idea di girare in digitale perché siamo nel 2020, né viceversa di lavorare per principio solo in pellicola.

Avete stabilito in precedenza delle «regole» su come avreste lavorato al film?

L’idea originale della trilogia era di lavorare sul tempo: Dulcinea si svolge nell’arco di un’ora, Pierino in 52 settimane di riprese, dal primo gennaio al 31 dicembre. Nella Casa dell’amore volevamo tornare sull’aspetto cronologico e girare nell’arco di una settimana, ma questa scelta è stata sabotata da noi stessi: ci siamo accorti che la cosa più rispettosa che potevamo fare era un lavoro più diluito nel tempo, meno rigido e formale rispetto all’idea originaria. Il lavoro di avvicinamento a Bianca poi è stato molto lungo, più di quello sul film stesso: ci siamo conosciuti, frequentati, per capire se c’erano i presupposti per fare un percorso insieme. Consolidato il rapporto fra me e lei lentamente ho iniziato a farle conoscere tutte le varie persone della troupe. Senza fretta, perché stavamo entrando in un ambito molto delicato.

Infatti entrate in una dimensione particolarmente intima della sua vita e anche di quella dei suoi clienti.

Abbiamo conosciuto molti clienti, alcuni per ovvi motivi di privacy non volevano essere ripresi, altri invece erano molto contenti di entrare nel film. Mentre alcune situazioni sono state ricreate a partire da persone e situazioni di cui eravamo stati testimoni, e che poi abbiamo ricostruito con degli attori. Una delle cose più interessanti per me è proprio come questo elemento di finzione, di costruzione, non sia posticcio ma il cardine del film: scatena reazioni e situazioni che contribuiscono a una rappresentazione più reale della figura di Bianca.

Nonostante la dimensione domestica, il mondo esterno preme per entrare sotto forma dell’amore di Bianca per la sua compagna lontana.

Tutti i miei film sono storie d’amore: in Pierino era la sua passione per il cinema, in Bianca è questo sentimento molto forte per la sua compagna. È la parte centrale del film, che lavora soprattutto sulla continua attesa di Bianca per il ricongiungimento con Natasha. La casa dell’amore non è un film voyeuristico sui clienti di una prostituta, sulla spettacolarizzazione della vita sessuale di una transessuale, ma è un lavoro fatto di poco, di piccoli gesti, di piccole attese che diventano grandi eventi nella vita di Bianca, come la ninnananna che le canta Natasha.