Ci sono tre punti chiari. Lampeggiano da un fondo nero. Scandiscono una successione ritmata.

Il primo, al bordo sinistro, dà l’avvio. Se alzi lo sguardo verso destra trovi la seconda macchia. Da qui misuri la distanza fino a un cerchietto nitido, più in alto. Questi tre punti chiari, tre note di preludio, aprono al luogo illuminato, smagliante, risolto in un concerto di bianchi e di neri, ove si raffigura il volto di un giovane uomo. Neri i capelli e la barba. Bianca la fronte spaziosa. Quel volto ti guarda fissandoti con un solo occhio, nero dietro una lente limpida.

L’altro è un’orbita vuota, nascosta da un vetro nero. In piedi, scuri il vestito e il soprabito, in tasca la mano destra. La sinistra, rilasciata, l’accosta il muso di un pointer dal lucido pelo. Nero.

Il cane si chiama Moro e il giovane Giuseppe Abbati, pittore. Sono ritratti da Giovanni Boldini, nel novembre del 1865, a Firenze, nello studio di Michele Gordigiani. Boldini ha ventitré anni, Abbati ventinove.

La tavola è esposta alla mostra «I Macchiaioli. Le collezioni svelate», curata da Francesca Dini, allestita a Roma al Chiostro del Bramante, che accoglie anche undici opere di Giuseppe Abbati.

Dura la fama di Boldini, artista che sottopose alla mondanità il raro talento che questa sua tavola dimostra. Abbati, autore di alcune tra le opere più rilevanti della ricerca pittorica pura, alla base di meditazioni che attraversano un secolo e costituiscono tuttora un presupposto della speculazione in pittura, è celebrato da pochi.

Della sua grandezza erano ben consapevoli artisti come Fattori – «mi ricordo di una quistione d’un nero all’ombra e un nero al sole» – e critici come Diego Martelli, sodale di Abbati, che scrisse: «Considerato che come colore preso in sé stesso nulla più chiaro possa trovarsi sulla tavolozza della biacca d’argento e nulla di più nero del nero fumo, egli tentava, in un tono più basso del vero, di dare tutta intera la tonalità del vero, rendendosi così possibile ogni gradazione di passaggi, per un trasporto matematico di proporzioni fra le potenze coloranti della luce e le combinazioni possibili della pittura. Così facendo si avviò sempre più a dei resultati di colore stupendi dove, con una apparente parsimonia di mezzi e con sapere grandissimo, otteneva luce, risparmio di crudità violente negli scuri e modestia grandissima di intonazione».

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Segnalo tre dipinti, fra quelli in mostra, sui quali constatare l’elevatezza raggiunta da Abbati: Stradina al sole, 1862, olio su tela, cm. 27×23; Casa sul botro,1863, olio su tavola, cm. 24×36,5; Dalla cantina di Diego Martelli, 1867, olio su tavola, cm. 48×29.

Dopo gli anni di studio e di apprendistato, la ricerca di Abbati si svolge nel corso di sette anni, dal 1861 al 1867, con particolare intensità tra il ’63 e il ’65.

Nel 1860 era con Garibaldi e perse l’occhio destro nella battaglia del Volturno. Ma, di nuovo, nell’agosto del 1862 parte volontario con Garibaldi, fermato all’Aspromonte. Nel maggio del 1866 è ancora con Garibaldi. A luglio è fatto prigioniero e condotto in Croazia. Torna a Firenze in autunno.

Il 1867 sarà l’ultimo anno della vita breve di Abbati. Il Moro è morto: «Ne pianse come della perdita di un amico«, scrive Martelli. Cerca di consolarsi acquistando un cucciolo di mastino. Lo chiama Cennino, in ricordo dell’autore del «Libro dell’Arte», nome augurale, quasi a protezione del pittore che si dispone a un lavoro solitario in Maremma.

Sul finire dell’anno, il 13 dicembre, Cennino lo addenta. Contratta l’idrofobia, Abbati muore il 21 febbraio 1868.

Il 13 gennaio aveva compiuto 32 anni.