La storia di Pavitra Bhardwaj, 40 anni, ha l’amaro pregio di riassumere in una sola vicenda una serie di peculiarità negative della società indiana. Un riepilogo nel quale si intrecciano discriminazione sessuale, molestie, retaggi patriarcali, letargia delle forze dell’ordine, frustrazione e, infine, indignazione.
Bhardwaj lavorava come assistente di laboratorio nella facoltà di chimica del Br Ambedkar College – parte della Delhi University – e da quattro anni denunciava molestie sessuali sul posto di lavoro da parte del rettore, Gk Arora. Si era rivolta a più riprese a diversi organi competenti all’interno dell’università i quali giudicarono infondate le accuse mosse. Bhardwaj decise allora di tentare con le autorità di polizia, constatando in prima persona la reticenza delle forze dell’ordine di occuparsi a fondo di questioni di genere o denunce di stupro.
Un interessante reportage pubblicato mesi fa sul magazine Tehelka raccontava infatti come gli ufficiali di polizia siano i primi a giudicare superficialmente una donna che sporge denuncia per violenza sessuale, figli di quel contesto di pudore e paternalismo che individua nella donna violata una tentatrice, una che se l’è andata a cercare e ora, dopo l’amplesso, cerca di guadagnarci qualche soldo rovinando la reputazione di persone per bene. Il caso di Bhardwaj, separata dal marito poliziotto, venne così trattato con tutta la noncuranza del caso: compili i moduli e le faremo sapere.

Nel 2012, sempre in attesa di notizie dalla polizia, Bhardwaj venne improvvisamente licenziata dall’università per «inadempienza»; con l’aiuto del sindacato universitario Delhi University Karmachari Union la donna portò una petizione all’attenzione dell’ufficio dello chief minister di Delhi – Sheila Dikshit dell’Indian National Congress, che ora sta correndo per la rielezione – e anche questa volta la sua pratica rimase inevasa. Nonostante il sostegno della famiglia, sabato scorso Bhardwaj ha deciso di compiere un gesto eclatante: si è cosparsa di benzina e si è data fuoco davanti alla residenza del governatore, lasciando una nota – ritrovata dalla polizia – in cui raccontava tutta la sua storia.

Col 95 per cento del corpo ustionato, la donna è morta nella giornata di lunedì, proprio mentre la sua vicenda diventava titolo da prima pagina sortendo l’effetto che le sue denunce e la sua petizione non erano riuscite ad ottenere: la polizia ha aperto un fascicolo, Sheila Dikshit ha annunciato un’indagine approfondita, gli studenti della Delhi University organizzano veglie notturne chiedendo giustizia e il sindacato – forte dei suoi 19mila iscritti – minaccia di non votare per il Congress alle prossime elezioni locali se non arriveranno provvedimenti seri contro il rettore, che continua a proclamarsi innocente, vittima di un complotto.

Al di là della veridicità delle accuse di molestie, ancora da provare, la storia di Bhardwaj mette a nudo la condizione di vulnerabilità e isolamento nella quale si ritrovano le donne anche solo presunte vittime di maltrattamenti, ovvero i tempi di reazione – emotivi e pratici – di un apparato statale messo davanti all’urgenza della questione della violenza di genere.

Dopo lo stupro della studentessa di Delhi, le promesse di azione da parte della politica, le leggi e le banche per donne intitolate alla memoria di Nirbhaya e i proclami di maggiore sicurezza per le strade sbandierati dalla polizia, rimane il vuoto che cresce imperterrito attorno alle donne, sempre più numerose, che decidono di bucare il velo d’ipocrisia della tradizione e denunciare, chiedere aiuto e giustizia. Chi riuscirà a riempirlo, seduto in parlamento o dietro la scrivania di una stazione della polizia, inizierà una rivoluzione della quale l’India ha disperatamente bisogno: la rivoluzione di genere.