Vuoi una rivoluzione senza risate? chiedeva Joseph Beuys, e la sua di risata gli attraversava il volto scavato illuminando gli occhi chiari, limpidi, talvolta perduti. L’uomo col cappello che faceva parte della sua figura fino quasi a essere un pezzo di corpo. Sigarette senza filtro, una dopo l’altra. «Ognuno può essere artista» diceva alla Germania degli anni sessanta scandalizzando esperti, accademici, pubblico di quel Paese uscito sconfitto dalla guerra, ostinato nella fatica della ricostruzione e soprattutto deciso affermarsi sul suo passato anche mettendolo alle spalle con troppa energica fretta. E questa «coincidenza» che è soprattutto una violenta (esistenziale) frattura tra l’arte di Beuys, sé stesso, la sua realtà è l’elemento di interesse nel film di Andres Veiel, che altrimenti appare come un biopic documentario piuttosto nella convenzione.

Nonostante gli archivi (il regista ha visionato oltre 300 ore di materiali) bellissimi, bianco e nero e colore che mostrano il suo protagonista al lavoro, nelle performance, nelle interviste, nel suo tempo insomma. Beuys è il racconto di Joseph Beuys (in concorso) attraverso appunto la documentazione della sua presenza e le voci di chi lo ha conosciuto, come Caroline Tisdall, che ha curato la più importante personale dell’artista al Guggenheim Museum di Ny, o Rhea Thoenges-Stringaris che insieme a Beuys, ha partecipato alla «organizzazione per la democrazia diretta» .

Chi era dunque l’artista che davanti a centinaia di persone risponde quasi gridando – e senza timore di essere criticato – a chi gli chiede perché in The Pack (1969) ha utilizzato delle slitte per bambini (40 slittini legati insieme a attaccati a un furgone Volkswagen) risponde che preferisce parlare di politica (questo è il senso della sua arte), della mancanza di democrazia in Germania soffocata dagli apparati burocratici dei partiti. La stessa Germania che la sua vita incarna in modo quasi esemplare: nato nel 1921, ragazzo, si arruola nella Gioventù hitleriana. In volo il suo aereo viene abbattuto, la narrazione vuole che Beuys sopravviva grazie alle cure dei nomadi tartari che lo raccolgono, un’esperienza «sciamanica» che cambierà la sua visione del mondo. Dopo la guerra la scuola d’arte, la depressione nerissima degli anni ’50, Beuys si chiude nella sua stanza, nemmeno si lava, vuole abbandonare l’arte, ciò che dipinge è scuro e mortale.

Infine una rinascita: le installazioni performance di cui è parte rompono con violenza le convenzioni artistiche. Coperto da miele e foglie dorate si aggira nello spazio della galleria di Dusseldorf con una lepre morta in mano – «Come spiegare la pittura a una lepre morta» è il titolo. «Voglio cambiare la coscienza della gente», l’arte non è una decorazione da salotto ma in quella Germania chi è il nemico da aggredire? A Kassel per Documenta arriva senza un lavoro da mostrare, per costruire con la democrazia diretta. Progetta però la sua installazione con 7000 querce per la cui realizzazione ci vorranno anni

Veiel organizza i materiali più o meno narrativamente cercando questo «punto di rottura» la radicalità di un gesto artistico come forma politica, come la resistenza di un’utopia. Ma a differenza del suo precedente (un grande successo) Black Box Germany (2001), ancora una storia tedesca, la Germania tra la guerra e la lotta armata, qui la forza sovversiva del suo soggetto non si distilla nelle immagini. Rimane il carisma di Joseph Beuys, e l’importanza pedagogica della trasmissione della sua esperienza.