«Alla mia età, e dopo tanti anni di cattedra, (ho) la coscienza (non presunzione) di essere tra i pochi innovatori metodologici nel mio campo di studi ancorché viva solitario – come solo può fare chi pensa –, pubblichi poco, e non mi sbracci a destra e a sinistra». Così si descriveva, nel 1964, alquanto piccato, Sergio Bettini al collega e amico di lunga data Rodolfo Pallucchini. All’epoca Bettini aveva 59 anni (era nato nel 1905), e da trenta insegnava all’Università di Padova, dove nel 1956 era giunto, dopo un periodo a Bologna, anche lo stesso Pallucchini. Si era insomma ormai creata, lì, nello Studio patavino, una vera e propria Scuola – come si usava dire in passato –, la cui matrice comune era il magistero di Giuseppe Fiocco: uno dei padri della storia dell’arte veneta.
Ma in che cosa consiste quel ruolo di «innovatore metodologico» che Bettini così lucidamente rivendicava per sé in quella lettera? Un’occasione per comprenderlo ci è data adesso dalla ristampa di Tempo e forma (pp. 380, euro 22,00), l’antologia di saggi bettiniani curata da Andrea Cavalletti per Quodlibet, la cui prima pubblicazione, nel 1996, cadeva a dieci anni dalla scomparsa dello storico dell’arte, avvenuta a Padova nel 1986. Vi sono raccolti diciassette saggi (più due interventi del curatore, uno dei quali, in chiusura, intitolato Poetica di Sergio Bettini), ordinati secondo la data di uscita. Si va dal 1935 del penetrante Sul non-finito di Michelangelo, al 1977 di Forma e colore in Tiziano. Al di là di quel che possa apparire, però, tra questi poli, dedicati entrambi a tematiche prettamente cinquecentesche (Bettini prese la laurea con una tesi su Jacopo Bassano), si susseguono una serie di scritti che rendono merito della varietà dei suoi interessi, degli strumenti filologici e filosofici da lui usati – e via via perfezionati – per carpire l’essenza delle opere d’arte, il loro stare nel mondo, il perché sono così come sono, in un permanente tentativo di mettere sempre più a fuoco «quanto vi è in esse di singolare». Oltre ad alcune tematiche della sua specializzazione accademica, vale a dire l’arte bizantina e medioevale, il volume raccoglie anche una serie di contributi focalizzati su artisti del Novecento (Picasso, Jean Arp, Matisse) così come pure su più pressanti temi di critica d’arte.
In un’altra lettera (febbraio 1954), indirizzata sempre a Pallucchini – conservata, assieme a quella citata in apertura, all’Università di Udine – Bettini ricorda quasi nostalgico «la caccia all’inedito, alle fotografie preziose, e i panorami che via via ci si aprivano su arti diverse dall’italiana, e l’abisso di problemi dell’arte contemporanea – e sempre l’assiduo, tormentoso assillo dell’esprimere come vedevamo, sentivamo, conoscevamo». Problemi e assilli che ritroviamo perfettamente espressi in uno dei saggi del libro, Inquietudini della critica d’arte attuale, steso dallo studioso nel 1971. Qui Bettini si proponeva di mettere in luce tanto gli svantaggi della critica d’arte «rispetto al medesimo esercizio compiuto su opere di letturatura e di poesia», quanto i suoi potenziali vantaggi. Da una parte riconosceva i limiti di quelli da lui definiti «i nostri modelli metodologici» – che oscillavano tra una «critica “di intuizione” e formalistica» (e qui il riferimento è a Roberto Longhi) e una che definisce di contesto e che si richiama «alla filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer e seguaci» –, dall’altra, ed è il cuore del suo pensiero, dichiarava lo stimolo e la base sistemica che il metodo strutturalista offriva, a cui si avvicinò attraverso la mediazione delle indagini di Henri Focillon, con le sue fondamentali Vie des Formes (per la cui edizione italiana del ’45 lo studioso scrisse la prefazione, qui nuovamente pubblicata), e la fenomenologia, in particolare quella di Merleau-Ponty. La speranza di Bettini è dunque che si crei una «critica insieme strutturale e storica», che sappia mettere in «luce delle continuità impreviste» e creare un «nuovo taglio di tempo», ossia una «nuova intelligenza della storia». Quest’ultima per lui è «un sistema di riferimento all’interno del quale noi oggettiviamo in un certo modo l’esperienza», un’esperienza che è anche corporea.
Tra i contributi maggiori di Sergio Bettini storico dell’arte bizantina, invece, è quello di aver compreso, sulla scorta delle intuizioni offerte dai maggiori rappresentanti della Scuola di Vienna, a cui egli riconoscerà sempre il suo debito («aiuto concreto al mio travaglio formativo i risultati fondamentali raggiunti già dal Wickhoff e poi soprattutto dal Riegl ed elaborati dai loro epigoni tra cui principalmente lo Schlosser»), come l’arte tardoantica sia caratterizzata, a differenza di quella classica, dalla temporalità. Il lettore potrà addentrarsi in questa «logica figurativa» attraverso Gli studi sull’arte bizantina, apparsi per la prima volta negli «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» nel 1954. «L’arte bizantina – aveva confessato Bettini in un’altra lettera indirizzata al «carissimo Pallucchini» – mi assorbe molto: ogni lavoro cresce di mole, poiché manca ogni larga base «filologica», soprattutto da noi; e la consultazione delle fonti greche e slave mi è alquanto faticosa. Ma sento che è una buona battaglia, che darà i suoi frutti in avvenire». Maturarono talmente quei frutti, e si fecero così succosi e nutrienti, che le sue intuizioni teoriche Bettini le poté usare profittevolmente anche per la decodificazione di altre vicende dell’arte veneta. Così accade con il saggio del 1956 Neoplatonismo fiorentino e averroismo veneto in relazione con l’arte. Partendo dall’indagine della «tradizione filosofica propria dell’Università di Padova», vale a dire quella «averroistica, o aristotelica, o infine anche alessandrina», Bettini ne individuò una costante nel «principio temporale della mutazione», che si opponeva chiaramente alla metafisica platonica.
Nel Rinascimento, col ritorno di fiamma del neo-platonismo (Marsilio Ficino), Venezia rimase però fedele al suo «carattere “mondano”», contrapponendosi, per semplificare, a Firenze. «La civiltà veneta – scrive infatti Bettini – non fu una civiltà idealistica, ma pratica; non dell’essere ma dell’esserci. Una tale civiltà è connessa con una visione del mondo, nel quale l’azione – e dunque la temporalità – prevale sulla contemplazione, che astrae dal tempo in atto. E perciò a Padova, in filosofia si fu averroisti; e a Venezia, nell’arte, prevalse il colore».
E di colore e di luce è intrisa l’arte di Giambattista Tiepolo, ultimo grande cantore della pittura veneta, di cui quest’anno ricorrono i 250 anni dalla morte. Bettini, nell’incipit di un saggio dedicato alla figura umana nel Settecento lagunare, parlando degli occhi nelle figure dipinte dall’artista, solitamente colte con le palpebre socchiuse, riconosce che «se quell’occhio si apre, e il suo sguardo si mostra, anzi si figge nel nostro – come nell’Eloquenza di Palazzo Sandi – spesso rivela un’intensità imprevista e poco meno che selvaggia: talora sono pupille (…) di bambini, che da quegli olimpi d’azzurro guardano giù a noi con un’intensità quasi straziante. Difficile, sottrarsi alla complicità del vedere, del sentire, che in quel teatro i personaggi ci guardano perché voglion essere guardati: ma come persone vive, la cui essenza è certo nell’essere vedute; ma il loro tormento segreto è quello di poter essere viste solo come maschere, sulla ribalta d’una rappresentazione effimera».