Nel primo libro dell’Eneide Virgilio descrive la tempesta che travolge le navi dei Troiani in fuga dalla loro città: solo alcuni naufraghi, fra i quali Enea, riescono ad approdare sulle coste di Cartagine, nei pressi dell’odierna Tunisi. Pier Paolo Pasolini, nel 1959, accingendosi a trasporre l’Eneide per un progetto di traduzione poi interrottosi al v. 301 del I libro, conferiva alla vicenda del naufragio e dell’approdo a Cartagine un habitus decisamente anti-epico, rivestendolo di toni civili e connotando gli esuli troiani come dei migranti che, costretti ad allontanarsi dal proprio paese, portano con sé delle «povere cose preziose».
Secondo Maurizio Bettini, oggi più che mai non possiamo leggere quei versi dell’Eneide senza attuare un confronto tra i profughi troiani in fuga dalla loro città devastata dalla guerra e gli odierni migranti che scappano dai propri territori martoriati. Non possiamo cioè fare a meno di pensare alle tragedie ‘umanitarie’ che quotidianamente si compiono in quello stesso braccio di mare, il canale di Sicilia. Quei versi non sono più solo poesia, sono diventati cronaca: «Gli orrori del Mediterraneo hanno tolto all’Eneide ogni innocenza letteraria». Perciò, secondo Bettini, oggi, a differenza del passato, non si può più leggere un classico senza attivare cortocircuiti mentali con la realtà che ci circonda.
È questa l’idea che sta alla base del suo nuovo saggio Homo sum Essere “umani” nel mondo antico (Einaudi «Vele», pp. 144, € 12,00). Da qui Bettini muove per sondare quale posto occuperebbe nel mondo antico la «Dichiarazione universale dei diritti umani» del 1948. L’Eneide si presenta per noi come «un grande libro della cultura» che ci ha trasmesso non solo letteratura ma idee, modi di pensare, costumi: ad esempio, il primo libro – Didone accoglie i profughi troiani – ci insegna che, in una società che rispetti i buoni costumi, l’umanità e il volere degli dèi, l’hospitium e l’accoglienza sono d’obbligo. Ma anche in altre opere di autori antichi possiamo trovare numerosi spunti per svolgere un’indagine comparativa, in tema di diritti umani, fra il mondo classico e la società contemporanea. Data la profonda differenza culturale (si tratta infatti di una società che considera normale la schiavitù), quello che possiamo fare, in sostanza, è ricercare termini, quadri mentali che, rispetto alla nostra visione dello stesso problema, presentano una maggiore o minore alterità. Cicerone, nel De officiis, elenca delle prestazioni che stanno alla base della società umana, i communia (elargizioni che devono essere offerte a patto che non danneggino coloro che ci sono legati da stretti vincoli): l’obbligo di concedere l’accesso all’acqua, di permettere che si accenda fuoco da fuoco, di dare un consiglio onesto a chi deve prendere una decisione. Bettini ricorda che questi «doveri umani», in un certo senso, ricordano le maledizioni scagliate dai Boùzygai (un antico collegio sacerdotale dell’Attica) contro tre categorie di persone: coloro che negavano fuoco o acqua a chi ne faceva richiesta, coloro che si rifiutavano di mostrare la strada agli erranti, coloro che lasciavano insepolto un cadavere.
Di quest’ultima colpa si è macchiato Creonte nell’Antigone di Sofocle: il suo divieto di seppellire il cadavere di Polinice ha rotto il patto con gli dèi, ha proibito un dovere umano la cui osservanza fa capo alla divinità. E se la figura di Antigone, schierata dalla parte dei ‘diritti umani’ violati, nelle riletture novecentesche della tragedia ha assunto decise connotazioni antifasciste e antirazziste, la cronaca – nota Bettini – si affaccia di nuovo all’orizzonte dei testi classici per ricordarci che oggi troppi cadaveri, privi di onori funebri, «galleggiano a mezz’acqua nel Mar Mediterraneo». Un’altra opera ricordata dall’autore sono le Lettere a Lucilio di Seneca. In una di esse, a differenza di Cicerone, Seneca non pone limiti nel definire l’humanum officium, il dovere degli uomini verso gli altri uomini, «non fa distinzione fra i “nostri” e tutti gli altri: i qualunque», portando ad esempio un verso dell’Heautontimoróumenos (Il punitore di se stesso) di Terenzio, dal quale trae il titolo lo stesso saggio di Bettini: homo sum, humani nihil a me alienum puto («sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo»). Il vecchio Cremete, vedendo il suo vicino Menedemo triste e angosciato, gli si avvicina, gli fa domande perché vorrebbe aiutarlo ma Menedemo gli dice di non ficcare il naso nei suoi affari. Al che, Cremete risponde con la battuta in questione. Ebbene – scrive Bettini – Cremete si comporta in modo indiscreto ed è per questo che si può attuare un vero e proprio «elogio dell’indiscrezione». Il celebre verso di Terenzio potrebbe tornare a essere cruciale, oggi che il mondo occidentale è sempre più popolato da ‘stranieri’: il primo principio dell’umanità potrebbe essere proprio la volontà di conoscere chi arriva sulle nostre coste. Aprirsi all’altro, essere indiscreti, si configura perciò come importante – e di nuovo cogente – gesto di humanitas.