In questo momento la risposta al problema di quale ricovero offrire a profughi e rifugiati in fuga da guerre o catastrofi naturali è ormai un’urgenza planetaria: dai paesi mediterranei e del medio oriente fino alle più lontane aree africane e asiatiche. Si fugge per un conflitto armato o per un terremoto e la disperazione è per la perdita di vite umane e dei pochi beni posseduti, tra questi quello vitale dell’abitazione.

ARCHITETTI E DESIGN si sono da sempre confrontati con il tema del «piccolo spazio», o spazio minimale che dir si voglia, ma la ricerca non sempre si è orientata al socialmente utile: l’«esistenzialmente minimo» avrebbero detto i «pionieri» del Movimento Moderno.
Così questa si è dispersa nell’elenco quasi infinito delle soluzioni minime riempitive dei piccoli lotti nel tessuto della metropoli invece di rivolgersi – sappiamo che è altra cosa – a colmare il disagio immediato di un riparo, pur temporaneo ma confortevole, per quei milioni di persone che ne hanno urgente bisogno. Tutti i prototipi sono rimasti al palo (l’ultimo in ordine di tempo quello di Renzo Piano collocato al Vitra Museum) per mille ragioni tra le quali immaginiamo l’economicità o le difficoltà della loro messa in opera, ma più in concreto crediamo per la mancanza di guardare al destinatario.

IL PROGETTO di Johan Karlsson, Dennis Kanter, Christian Gustafsson e Nicolò Barlera ideato insieme a Ikea Foundation e Unhcr è in questo senso controtendenza. Con chiarezza i progettisti hanno saputo chi avrebbe vissuto il loro piccolo spazio abitativo. Così, alla prova dei fatti, hanno potuto dare la migliore soluzione per evitare la sofferenza di migliaia di uomini, donne e bambini in transito per campi profughi o senza un ricovero.
IL RIFUGIO (shelter) in questione misura una superficie di 17,5 mq, è contenuto all’interno di due scatole di cartone, quindi, facilmente trasportabile e può essere montato da quattro persone in quattro ore seguendo un manuale di istruzione di facile lettura inserito tra i pezzi di montaggio insieme a un martello al posto dell’immancabile brugola Ikea. Con la definizione di «Better Shelter» questo prodotto è stato premiato con il Beazley Designs of the Year e fino al 19 febbraio è possibile visitarlo in mostra al The Design Museum di Londra (designmuseum.org).
Dall’articolo di Oliver Wainwright pubblicato sul Guardian apprendiamo che il rifugio ha un grado alto di resistenza grazie a «un robusto telaio in acciaio rivestito con pannelli coibentati in prolipropilene», inoltre che è dotato di un pannello solare sul tetto (a due falde) che offre quattro ore di luce elettrica oltre la ricarica a telefoni cellulari essendo in dotazione una porta usb.

Da Johan Karlsson, responsabile del progetto della divisione Housing Rifugiati di Ikea, sappiamo, inoltre, che «i pannelli possono durare fino a tre anni» e che il kit comprende anche un foglio di tessuto per l’ombreggiatura con uno strato metallico che riflette il sole durante il giorno e mantiene il calore di notte. Per i progettisti l’obiettivo principale da raggiungere è stato quello di congegnare un riparo sicuro e durevole nel tempo, garantendo la possibilità di reimpiegare parte dei suoi componenti. Solo con le soluzioni tecnologiche adottate, semplici ma ben pensate, è ora possibile sostituire nei campi profughi le fragili tende che in pochi mesi collassano al vento e alla pioggia.

SE PENSIAMO che da stime dell’Unhcr il 10% della popolazione di rifugiati del mondo vivono in media in un campo circa 12 anni in tende che non forniscono un adeguato isolamento dal caldo e dal freddo e senza elettricità, si comprende bene quale radicale cambiamento il «Better Shelter» ha portato alle condizioni di vita dei rifugiati. Dal 2015, con un costo per ogni singolo rifugio che supera appena il doppio di una tenda (1.250 dollari), si è potuto dare un ricovero decoroso a più di 16.000 rifugiati sparsi in alcune aree di crisi umanitarie. Intanto «Better Shelter» è entrato nella collezione permanente del MoMa di New York e si presta ad essere modificato nel corso dei test che subirà nei più diversi contesti geografici dove sarà impiegato. Esperienze di questo genere dimostrano le molteplici possibilità che possono nascere tra l’industria, organizzazioni umanitarie e designer: una collaborazione non semplice ma che mostra risultati di successo come il «Better Shelter».