«His lyricism … his divine, light-handed, winning lyricism … I just think he is adorable». Un simile, felice e personalissimo giudizio apre il catalogo della smagliante rassegna ospitata, ancora fino al 12 gennaio, presso la Frick Collecion Bertoldo di Giovanni The Renaissance of Sculpture in Medici Florence. Si tratta della prima monografica dedicata a un artista che fu, nella seconda metà del Quattrocento, creato di Donatello, familiare di Lorenzo il Magnifico, custode e capo del giardino di anticaglie posseduto dal Medici nei pressi del convento di San Marco, palestra per nomi di rilievo lungo la stagione peninsulare della ‘maniera moderna’, da Michelangelo a Giovanfrancesco Rustici, da Pietro Torrigiano a Francesco Granacci.
Si tratta di un introibo di grande giustezza, per una serie concomitante di ragioni.
Le parole con cui si è scelto di iniziare questo pezzo sono infatti parte di una conversazione, registrata nel volume in corretta dattilografia, fra il più giovane dei curatori al lavoro sull’esposizione newyorkese, Alexander J. Noelle, e James David Draper, che è stato l’autore di un libro ancora oggi considerato il testo di riferimento sull’attività dello scultore, indagine pubblicata nel 1992 e quindi a circa sessant’anni di distanza dall’unica, altra monografia toccata in sorte a Bertoldo nel corso del Novecento: pensiamo cioè a quella redatta nientemeno che da Wilhelm von Bode, il quale nel 1925 era arrivato a comporre un problematico happy end per una sequenza di saggi che ne aveva concentrato l’attenzione attorno all’oeuvre del maestro, un petit maître (almeno se ci si limita all’esigua consistenza del suo catalogo) fino ad allora disertato dalla letteratura specialistica ma già incluso da Giorgio Vasari fra le figure cardine per il passaggio dalla Seconda alla Terza Età di quello che sarebbe stato etichettato come il lungo Rinascimento italiano; una personalità in posizione privilegiata rispetto alla scansione coniata dallo stesso biografo aretino per raccontare l’arte dei suoi tempi, nello snodo cruciale fra Quattro e Cinquecento.
Eminente nello staff del Metropolitan
Draper, a partire dagli anni settanta, è stata presenza eminente nello staff curatoriale del Metropolitan Museum of Art, lontano solo pochi isolati dalla chicchissima, storica sede della Frick; e all’interno di una macchina complessa come l’istituzione sulla Quinta, si è imposto a mo’ di custode amorevole per la ricca collezione di bronzi d’epoca moderna, raccolta che proprio in questi mesi – e grazie al suo contributo imprescindibile – sta arrivando a una definitiva catalogazione.
Al momento di affidare a qualcuno il saluto inaugurale dell’odierno evento espositivo, ci si è pertanto rivolti alla voce più autorevole e appropriata, non solo in virtù di una personale expertise sulla carriera dello scultore laurenziano, ma anche – e soprattutto – in rapporto al ruolo testimoniale rivestito dallo studioso rispetto alla grande stagione postbellica della connoisseurship anglofona, milieu ormai storicizzato che ha visto muoversi fra le due sponde dell’Oceano personalità della fatta di John Pope-Hennessy o Anthony Radcliffe. Deve dunque essersi offerta come una scelta obbligata il dedicare proprio a Draper l’intera mostra «in recognition of his discerning interest in an artist whom many other scholars had underestimated or simply overlooked»; e tanto più un simile omaggio risulta necessario dopo che, all’inizio di novembre, si è diffusa la notizia della scomparsa dolorosa di una personalità tanto rilevante per il curioso scandaglio della produzione bronzistica italiana vivificata nella seconda metà del secolo passato, anche attraverso iniziative come la traduzione in inglese del compendio seminale Die italienischen bronzestatuetten der Renaissance, dato alle stampe da Bode fra 1907 e 1912 e commentato da Draper – nella sua lingua madre – in una sontuosa edizione del 1980.
Il lieve scambio di battute, in pettegola prefazione al catalogo, appare però essenziale per un altro, diverso motivo (magari più sottile, ma non per questo meno rilevante): è il tono brioso e personale, arguto e nonchalant dello studioso, quasi eco di una pagina delle Preghiere esaudite di Capote, a certificare infatti l’assoluta necessità di ospitare a Manhattan un’iniziativa come quella oggi curata, assieme a Noelle, da Xavier F. Salomon e da Aimee Ng. Nelle chiacchiere colte e sprezzate di Draper si rispecchia infatti bene la corrente attenzione, a un tempo intellettuale e mondanissima, condivisa da importanti collezionisti americani – e più in particolare newyorkesi – in direzione del mercato suntuario della bronzistica fiorentina, quindi di artisti fra cui Giambologna o Giovan Battista Foggini, Massimiliano Soldani o Giuseppe Piamontini. E se per l’appunto le mire ambiziose di amateurs come Peter Marino, J Tomilson Hill o Claudia Quentin si indirizzano normalmente verso le squisitezze estenuate di epoche già in odor di manierismo o travolte dal virtuosismo materico della sensibilità barocca, non meno un’archeologia produttiva sul tipo di quella rappresentata dal catalogo di Bertoldo – un contemporaneo di maestri fra cui Bartolomeo Bellano o Antonio del Pollaiuolo – si ambienta a perfezione sullo sfondo degli eleganti appartamenti svettanti attorno a Central Park o degli scintillanti, nuovi edifici concentrati nel Meatpacking District.
Una specializzazione in lega metallica
Questi fu infatti fra i pionieri, in Toscana, nella produzione di microsculture in lega metallica, genere capace di imporsi nelle forme di una vera e propria specializzazione, per il giudizio dei suoi contemporanei, al fianco del conio di medaglie, altra tipologia cara all’inventiva di Bertoldo: la rassegna, in questo senso, ha il pregio di riunire per la prima volta tutte le prove di un interesse siffatto, giunte fino a noi, arrivando persino a riaccostare l’unico pezzo attribuibile alla mano dell’artista, già in proprietà di Henry Clay Frick, al suo probabile pendant, e cioè la figura reggi-scudo nelle raccolte dei Principi del Liechtenstein.
L’esaustività della selezione presentata in mostra è proprio il maggior merito di un appuntamento che – secondo quanto dimostrato dal ponderoso catalogo – si basa d’altronde su un solido background di ricerca. Oltre ai bronzetti e alle medaglie, infatti, il visitatore ricevuto nelle due ordinate sale del percorso si imbatte – con lieta meraviglia – anche in prestiti inattesi, a ricomporre l’intero arco produttivo dello scultore: pensiamo cioè al sofferente San Girolamo di Faenza (la cui attribuzione è stata a lungo dibattuta fra Donatello e Bertoldo), o all’interminabile fregio ceramico proveniente dalla villa medicea di Poggio a Caiano, un rebus di mani diverse al lavoro su una sola impresa, ispirata a un’ermetica iconografia di sostanza neoplatonica. L’inedita possibilità di confrontare un catalogo tanto disperso regala infatti l’occasione di formarsi ultime certezze o di consolidare vecchie intuizioni, sottoponendo a una verifica costruttiva l’opera già avviata dal Draper nel senso di una virtuosa rastremazione delle proposte di Bode; e questo alla luce delle fondamentali scoperte archivistiche rese note nel 2005 da Lorenz Böninger e Luca Boschetto, che trovano finalmente posto – nel volume edito dalla Frick – all’interno di un’organica appendice documentaria, riassuntiva di consolidate e recenti conoscenze documentarie.
Il profilo di Bertoldo ne esce così più netto, anche in virtù delle analisi scientifiche condotte da Julia Day, sia sulle leghe che sulle tecniche di fusione da questi adottate nel corso di una carriera trentennale; e sebbene tali tratti siano ancora caratterizzati dalla ruvida consistenza, dalla severa sobrietà condivisa dai volti delle sue figure, la mostra si offre come un caposaldo per la sua conoscenza, in elegante, commossa staffetta con la bibliografia novecentesca.