Vannino Chiti resiste, ma ogni giorno si fa più dura per i senatori del Pd che insistono nel proporre l’elezione diretta del nuovo «senato delle autonomie» al posto della cooptazione dei sindaci e dei presidenti di regione prevista dal disegno di legge costituzionale del governo. Martedì comincerà in confronto in prima commissione a palazzo Madama, ma ieri è arrivato un duro colpo per i democratici «dissidenti» dalla linea che Renzi sta imponendo con tanto di richiami alla disciplina di partito. Pierluigi Bersani, riferimento per molti dei firmatari della proposta Chiti, ha pubblicamente disconosciuto il tentativo di fermare la corsa di Renzi. Intervistato da Mentana, l’ex segretario del Pd ha sostanzialmente invitato Chiti a ritirare la sua proposta, in modo da non ostacolare la possibilità che la riforma costituzionale venga approvata in prima lettura entro le elezioni europee. In più ha messo una pietra sopra la richiesta principale di Chiti, quella cioè di mantenere l’elezione diretta da parte dei cittadini – che poi di quella proposta è anche la caratteristica di maggior appeal per i senatori, anche esterni al Pd (12 ex 5 Stelle l’hanno già firmata). Bersani, si è capito, condivide poco del progetto riformatore di Renzi. Ma come il resto dell’opposizione interna non vuole apparire come colui che frena un presidente del Consiglio, e segretario, in luna di miele con i sondaggi. E per questo sposta il fronte sulla legge elettorale, che è legge ordinaria già alla seconda lettura dunque più immediatamente pericolosa. E soprattutto andrà comunque cambiata, ma solo perché non più conveniente al Berlusconi in caduta libera.

«Spero che l’iniziativa di Chiti possa essere ricondotta a qualche emendamento e non a un nuovo progetto di legge. Facciamo la riforma del senato entro il 25 maggio, ma quando c’è da mettere mano alla legge elettorale vediamo di modificarla», ha detto Bersani. Con ciò aprendo un solco tra i ventuno senatori democratici che, insieme a Chiti, hanno firmato la proposta (peraltro non l’unica tra i democratici, ma di certo la più temibile per Renzi). Già tre firmatari hanno espresso dubbi, intenzionati come sono a collaborare con il governo. Giammai a ostacolarlo. Chiti però non arretra, e aspetta al varco le relazioni che martedì dovranno presentare Finocchiaro e Calderoli. «Come si può cambiare un impianto che complessivamente non regge con gli emendamenti, anziché con un confronto generale e l’approfondimento in commissione?», chiede retoricamente il senatore toscano, che fu ministro per le riforme nel secondo governo Prodi. Non per «protervia», assicura Chiti, ma per «difendere il valore dell’autonomia del parlamento e di ogni singolo parlamentare contro la dottrina che piega a una linea di partito o del governo i cambiamenti della Costituzione».

Lo scontro si focalizza naturalmente sulla (mancata) elezione diretta, che è il fianco scoperto della proposta renziana. Perché il senato che immagina il governo, pur privo dell’investitura popolare, conserva funzioni legislative. E perché la riforma si accoppia con una legge elettorale – l’Italicum – che regala al primo partito il controllo assoluto della camera politica, anche una percentuale assai lontana dalla maggioranza. Renzi però sul punto non vuole cedere. L’ha scritto chiaro e tondo nella relazione che accompagna il testo depositato al senato: l’elezione diretta «potrebbe trascinare con sé il rischio che i senatori si facciano portatori di istanze legate più alle forze politiche che alle istituzioni di appartenenza… e che la loro legittimazione diretta da parte dei cittadini possa, inoltre, indurli a voler incidere anche sulle scelte di indirizzo politico che coinvolgono il rapporto fiduciario, riservate in via esclusiva alla camera dei deputati».

Chiti ha un bel ripetere che con la sua proposta si riducono i parlamentari più che con quella del governo, mantenendo però al senato funzioni «alte» e di garanzia. Il senatore riprende alla lettera un allarme di Bersani, quando sostiene che «se nella riforma della Costituzione si perde di vista una visione complessiva sui contrappesi di funzioni e di potere, la conseguenza sarebbe lo scivolamento in Sud America». Bersani però l’ha già lasciato solo. E anche Giorgio Napolitano benedice lo sforzo renziano: «C’è l’esigenza di riforme istituzionali che favoriscano il riavvicinamento alla politica da parte dei cittadini». Non facendoli più votare per il senato, funzionerà?