«La riforma costituzionale è nel campo del pensabile. Ma se la si abbina al modello dell’Italicum, un modello iper-maggioritario con parlamentari per lo più nominati e senza che si capisca chi sia il nominante, si entra nel campo dell’impensabile. E non ci può essere disciplina di partito che tenga». Faccia scura, tono alterato, Pier Luigi Bersani esce dall’aula e si sfoga con i cronisti. In mattinata è stato ricevuto dal presidente Mattarella. «Questo è l’ultimo sì», giura in Transatlantico. «Il patto del Nazareno non c’è più, ora non si dica che non si tocca niente. O si modifica in modo sensato l’Italicum o io non voto più sì sulla legge elettorale e di conseguenza sulle riforme perché il combinato disposto crea una situazione insostenibile per la democrazia». Poi l’offerta a Renzi: «Se accetta di modificare l’Italicum chi dissente come me gli garantisce che al senato i voti ci saranno tutti». Ma l’offerta cade nel vuoto. La minoranza Pd chiede meno nominati e premio di maggioranza alla coalizione (e non alla lista) e apparentamenti al secondo turno. Ma in molti si accontenterebbero di un gesto: come sul jobs act. Per ora avvertono, si appellano, si aggrappano alla speranza che Renzi ’apra’. C’è chi dà per prossimo «un tavolo con Guerini». Ma in serata la ministra Boschi è sprezzante: «Se chi ha vinto il congresso non può dare diktat, non lo può fare nemmeno chi l’ha perso».

Renzisembra irremovibile: il merito della riforma per lui non il punto, il punto è la sua determinazione a non riportare l’Italicum al senato, camera infida da quando Forza Italia nega i voti. Dunque la legge non si tocca «neanche di una virgola». Così l’ex area Cuperlo, che prepara la «reunion» per il 21 a Roma (il 14 a Bologna però Speranza riunisce l’ala ’dialogante’) vede delinearsi all’orizzonte la scommessa finale: o un ’serrate i ranghi’ o il definitivo ’si salvi chi può’.

Le cinquanta sfumature della minoranza Pd praticano tre voti diversi. In tre si astengono (Capodicasa, Galli e Vaccaro), in sette non partecipano al voto (fra gli altri Fassina, Boccia, Civati, Pastorino), gli altri votano sì turandosi il naso. La dichiarazione a nome del gruppo è affidata a Lorenzo Guerini, non a Speranza, presidente dei deputati. Per Alfredo D’Attorre questo sì è «l’ultimo atto di responsabilità». In aula prima di lui Rosy Bindi parla di «ultimo voto favorevole» perché senza modifiche «nelle votazioni precedenti», vuole dire ’successive ma è un lapsus rivelatore, «non parteciperò al voto e nel referendum starò dalla parte dei cittadini». Il referendum confermativo è uno degli spettri: «Che faremo, una campagna contro le riforme di Renzi?», è il rovello di molti. Gianni Cuperlo annuncia il sì ma avverte che «senza modifiche ciascuno si assumerà le sue responsabilità». Più tardi la sua area Sinistradem ribasce l’ultimatum in un documento firmato da 24 parlamentari (fra gli altri Amici, Argentin, Bray, De Maria, Fontanelli, Miotto, Pollastrini).

Stefano Fassina non partecipa al voto e dichiara, rivolto più ai suoi che all’aula: «Abbiamo appreso dal presidente del Consiglio l’indisponibilità a correggere la legge elettorale». Come dire: è inutile promettere battaglia se poi alla fine vi allineate sempre. Pippo Civati lo dice esplicitamente: «Dopo il voto di stamani quasi l’intero testo della riforma risulta inattaccabile. Chi ha votato a favore condivide le scelte compiute e ne porta la responsabilità». Dal senato Chiti prende atto che «nella cosiddetta minoranza Pd ci sono differenze politiche profonde».

Che la minoranza sia spappolata e che la gran parte avrebbe votato sì lo si è plasticamente visto alla riunione di lunedì sera. Cuperlo è orientato per il non voto, ma a deve prendere atto che le sue truppe si stanno sfilacciando, per attrazione verso Renzi ma anche per manifesta impotenza dell’opposizione interna. Idem Bersani. Il risultato è la solita promessa: la battaglia è rimandata alla prossima volta. Oggi tutti giurano che sull’Italicum andranno fino in fondo. Ma sono in pochi a credere di impressionare Renzi. Ci crede Davide Zoggia: «Renzi non è sicuro di avere i voti sull’Italicum, lo dimostra il fatto che ha rimandato il voto a dopo le regionali». Anche perché, spiega D’Attorre, «per la psicologia del parlamentare medio una nuova legge elettorale equivale a elezioni anticipate, anche se nella realtà non è così». Quindi sull’Italicum i più agguerriti della minoranza si sono autoconvinti che non saranno soli. «Vi vedo perplessi», dice D’Attorre ai cronisti allontanandosi. Poi si ferma un attimo: «Lo sono anche io».