Un paio di settimane fa, allo stand Coconino del Napoli Comicon, una cover un po’ vintage in cui spicca la silhouette scura di un uomo armato su fondo rosso ha catturato la mia attenzione. Niente di strano, perché quella è la copertina del nuovo libro di Giacomo Nanni, impegnato in quel momento nel firmacopie di Nel mirino, il libro realizzato con il fumettista anglofrancese Thomas Gosselin. Con lui e Nanni, fumettista italiano caro ai buongustai e amato dai grandi, abbiamo parlato del loro romanzo a fumetti che ripercorre il primo, terribile, caso di omicidio di massa. È stato proprio lo sceneggiatore a rispondere della nascita del libro, pubblicato originariamente in Francia per Cambourakis.

«Giacomo mi ha proposto di scrivergli una sceneggiatura, avevo questa praticamente pronta. Abbiamo cercato un editore mentre la realizzavamo. Per fare un esperimento, avevamo voglia di provare una casa editrice con la quale non avessimo l’abitudine di lavorare. Giacomo è stato una specie di primo lettore. Mi ha un po’ indirizzato, mi ha proposto dei cambiamenti e dei tagli e il progetto si è evoluto assieme al disegno. Ha proposto immagini, un’ambientazione e delle soluzioni alle quali io non avrei pensato. Ha anche alleggerito il racconto dal punto di vista emotivo: sarebbe stato senza dubbio più sordido se l’avessi realizzato da solo».

Infatti, essendo anche disegnatore, perché non ti sei incaricato anche della parte grafica?

«Stavo facendo un altro libro contemporaneamente, Lettere d’amore infinite. E Nel mirino era una storia abbastanza pesante e dura per sopportarla da solo, quasi un crimine per il quale avevo bisogno della complicità di qualcuno. Quando disegno le mie storie lavoro in modo completamente diverso, per episodi, improvvisando fino alla fine. Se avessi disegnato Nel mirino, sarebbe passato troppo tempo fra l’inizio e la fine e non avendo molta pazienza, sarei finito per sviare e parlare di qualcos’altro, della madre di Charles Whitman (il protagonista della vicenda), dell’architettura di Austin o dell’apertura del cielo del Texas. Invece ho potuto scrivere tutto di slancio in qualche giorno, e lasciare che la storia si sviluppasse graficamente senza di me, come una seconda scrittura apportata da un altro. Ho potuto raccontare più facilmente cose che non avrei avuto voglia di disegnare».

Cosa ti ha portato a trattare la strage di Austin?

«All’inizio volevo solo parlare di un personaggio che si prepara a commettere qualche cosa di terribile, ma non avrei potuto evitare di parlare del crimine commesso. La preparazione del massacro era un pretesto per raccontare idee e problemi diversi del protagonista, ma bisognava arrivare fino alla fine e mostrare anche le conseguenze di quei problemi e quelle paure. Come in un incubo da svegli, bisognava proseguire fino in fondo. Ho comunque letto un po’ di documenti sull’avvenimento, per cercare di capire meglio e di rendere l’insieme credibile, e il reale porta con sé anche nuove idee. Ho l’impressione che le storie criminali siano facilmente avvincenti: delle persone muoiono, succede insomma qualche cosa di assolutamente irreversibile e drammatico, il minimo gesto diventa tremendamente importante ed eroico! Inoltre questo genere di città ed avvenimenti sono abbastanza straordinari e scioccanti non solo a livello umano o psicologico, ma anche a livello visivo e geometrico, se vogliamo, è abbastanza facile perdercisi dentro, nella finzione. Diciamo che questa strage ad Austin, Texas è stata, malgrado tutto, molto comoda da raccontare. Il protagonista-che si chiama Emerson- è ispirato a Charles Whitman-il 25enne ex marine, autore della strage.

Oltre a conoscere il nome degli agenti che lo uccideranno, il vostro personaggio chiede di essere sottoposto ad autopsia dopo il suo decesso per capire se i suoi strani sogni e disturbi non dipendano da un problema fisiologico. È un caso interessante di fenomeno inverso, nel quale la fiction rientra in quella che è stata la realtà storica. È per questo che i delitti dopo che Emerson li ha premeditati, non vengono mostrati, o vengono in qualche modo “censurati” graficamente, nel momento in cui li compie realmente?

T.G. Charles Whitman pensava veramente di soffrire di un tumore al cervello, e nel corso dell’autopsia i medici hanno scoperto che era proprio così. Aveva paura che questo influisse sul suo comportamento, malinconico, con tendenze suicide. Si vedeva veramente come un «caso» da studiare. Non sapeva chi e quante persone avrebbe ucciso, ma essendo la carneficina una specie di rappresentazione teatrale, nella nostra storia, era necessaria anche una «prova generale», con il narratore demiurgo di sé stesso in quanto personaggio. Credo che il fatto di non mostrare troppo esplicitamente per due volte la morte delle vittime sia stata una idea di Giacomo.

Probabilmente l’elemento più inquietante del libro e della vicenda reale, è che Whitman/Emerson, intensamente impegnato nel “fare del bene”, quasi ossessionato dalla buona natura delle sue azioni, finisce per uccidere una ventina di persone totalmente innocenti, e senza alcun motivo apparente. È un caso isolato, o credi che sia un profilo criminale comune?

T.G. Non sono uno specialista di assassini o di etica, ma penso che sia un comportamento comune a tutti, non solo ai criminali: si cerca di razionalizzare e di legittimare quel che si ha già deciso di fare. Ognuno trova buone ragioni per fare quello che fa, siamo come personaggi di Jean Renoir. E poi penso che Whitman fosse completamente perduto nella sua testa, per passare all’atto doveva essersi convinto che agiva per generosità, non per egoismo o per paura. È un terribile circolo vizioso, perché sembra che sia il fatto di auto-analizzarsi e di comprendere le proprie turbe che rinforza il suo squilibrio. Volevo mostrare la sua follia come una specie di iper-razionalità cui nessuno voleva dare ascolto e che dunque stava a lui realizzare.

La cifra grafica del libro riporta alla precedente pubblicazione di Nanni- stavolta per Rizzoli Lizard- Atto di Dio, ma questo non è l’unico punto di contatto tra i due libri.

Nella storia di Nel mirino l’atto della scrittura ha un’importanza notevole, si erge quasi a personaggio: ci sono i taccuini su cui Emerson annota i suoi sogni, la lettera che lascia, scrivendola a macchina, la giustificazione alla madre quando le dice che in realtà vuole diventare scrittore, elementi che amplificano il senso di turbamento del protagonista, che sottolineano la premeditazione ripercorrendone la cronaca.

Però anche leggendo Atto di Dio, ho avuto la sensazione che tu appartenga alla famiglia dei fumettisti scrittori, quelli che cavalcano il fascino della frase, e del narrare verbale. È così Giacomo?

G.N. È così, ma se vogliamo entrare nei dettagli: diversi anni fa, nei miei primi tentativi di produrre qualcosa di originale a tutti i costi, ho disegnato una lunga storia muta che non è mai stata pubblicata, e accanto a questa diverse pagine auto-conclusive mute, senza parole, alcune delle quali sono poi finite su un numero della rivista Canicola anni dopo.

Per farla breve, un giorno incontro un famoso editore e mi dice una cosa tipo: «Proponimi una storia per questa rivista che facciamo. Basta che non sia muta.» Da lì in poi ho smesso di disegnare storie senza parole e ho cominciato anche a scrivere, banalmente perché sapevo che l’editore parlava seriamente e temevo di non essere pubblicato. È stato molto importante anche un workshop che ho fatto con Gipi anni fa, dove ho capito quanto determinante fosse la scelta delle parole, una per una, fino alla punteggiatura.

Nei due casi lo stile è “puntinista”: sembra un retino da fumetto classico, ma tu la arricchisci con una grande gamma di colori e sfumature, e la stratifichi, mischiandola anche a tratteggio e linea chiara. In generale sei sempre stato un amante della texture ma il punto è forse l’ultimo passo della sintesi grafica. Come sei arrivato a questo stile e come lo realizzi?

G.N. Mi son sempre piaciuti i disegnatori a base di tratteggio, da Crumb a Gorey a Bacilieri. La base è ovviamente l’incisione classica antica, quando non esistendo la fotografia l’unico mezzo per ottenere toni di grigio nel disegno era quello di disegnarli manualmente. È una cosa che diamo per scontata oggi (intendo noi disegnatori, per i lettori poco importa), ma per lungo tempo i mezzi toni nella stampa sono rimasti legati a varie tecniche incisorie artigianali. Di fatto, anticamente il tratteggio è legato alla necessità di riprodurre in bianco e nero le sfumature della pittura e dell’affresco. Non fa parte dell’attrezzatura del disegno di base, è legato anche alla necessità di poterlo riprodurre in stampa. Da qualche anno ho imparato ad usare alcuni moderni macchinari digitali che mi hanno permesso di lavorare direttamente su un prodotto pronto ad essere stampato. E quindi sono passato comodamente ai puntini, prima per il chiaroscuro, e poi anche per il colore. Il puntino è comodo, perché da solo è «quasi niente», una linea è già «qualcosa», può disturbare la visione d’insieme. Hai bisogni di diversi puntini assieme per fare qual «qualcosa» che è la texture. Questioni di percezione visiva interessanti, secondo me.

Nel mirino è stato disegnato prima di Atto di Dio?

G.N. Sì, e infatti è per disegnare Nel mirino che mi sono studiato i retini utilizzati nei comic book americani dell’epoca in cui si svolge la storia, la metà degli anni ’60. È l’epoca in cui i tipografi, non solo negli USA, cominciarono a calcolare le varie inclinazioni di ciascuno dei retini applicati ai colori primari, le quali variavano in maniera tale da sovrapporsi nella maniera più armonica possibile. Anche le più comuni e attuali stampe in quadricromia vengono da lì, pure quelle delle nostre stampanti casalinghe. Poi nel libro ho declinato la cosa in senso espressivo. In Atto di Dio invece ho usato una tecnica di retinatura ancora precedente, ispirata ad alcuni libri di fiabe di animali illustrate da Benjamin Rabier, un disegnatore francese del secolo scorso, fra i precursori dell’antropomorfismo di Walt Disney. All’epoca la retinatura era un lavoro artigianale del tipografo, all’epoca. Rabier dipingeva acquarelli, il tipografo si occupava di riprodurne le sfumature su lastre retinate, che erano le dirette discendenti delle lastre da incisione. Spesso il tipografo era l’editore stesso. Fare l’editore era anche un lavoro di artigianato manuale.

Se dovessi scegliere un modo tra tutti per parlare di Atto di Dio, direi che è un lavoro sulla

tendenziale incapacità dell’uomo di domare la natura, ma com’è nata l’idea di associare

la storia del capriolo a quella del terremoto del 2016? Riguarda l’illusione di

poter controllare e addomesticare l’elemento naturale?

G.N. È stato un caso. Cercando notizie del terremoto sul sito dell’Ansa, ho scoperto la storia di un capriolo che si era rifugiato per mesi nei pressi di un centro commerciale, non lontano dal Monte Subasio, in Umbria. L’epicentro del terremoto invece si trovava sotto il Monte Vettore, nelle Marche, quindi era apparentemente troppo lontano per metterli in relazione l’uno con l’altro. Allora sono andato su Google Maps e ho cominciato a osservare quella parte della catena dell’Appennino. E ho visto che in effetti il Monte Subasio è perfettamente visibile dai Monti Sibillini e che in effetti da una prospettiva più ampia il capriolo non era così lontano e che sicuramente le scosse erano state percepite anche nei pressi del Monte Subasio, che distava 100 chilometri dall’epicentro del terremoto. Da queste incursioni su Google Maps è nata gran parte dei paesaggi che stanno nel libro. Di fatto, controlliamo e addomestichiamo la natura da sempre, non è un’illusione. Il problema è che

stiamo facendo i conti con un controllo che è per così dire dopato dall’industrializzazione, dall’agricoltura, pesca e allevamenti intensivi. Sono i danni che provochiamo che ci obbligano a rivedere in generale il nostro rapporto con l’elemento naturale. Ma di questo problema si parla fin dalla prima rivoluzione industriale. Il termine «smog» è dell’inizio del ‘900, ma gli abitanti di Londra morivano di bronchite a centinaia già dalla metà del diciannovesimo secolo. Son passati due secoli.

La parte di testo “tecnico” in Atto di Dio è affrontata con un lettering diverso e una

sintassi insistente, che torna spesso su sé stessa, una specie di scrittura che spiega

e avanza con tono manualistico e asettico. C’è un motivo per questo stile, distaccato e opposto a quello della voce narrante del capriolo?

G.N. Sì, c’è un motivo. Il libro è stato realizzato in stretta collaborazione con Pasquale La Forgia, che è l’editor di Rizzoli Lizard. Quando gli ho consegnato le prime 15 pagine, che comprendevano il primissimo inserto «tecnico», non c’era davvero differenza con la voce del capriolo. Avevo semplicemente accentuato la ripetitività, perché intuivo qualcosa, ma è stato Pasquale a indirizzarmi. In effetti le parti a fumetti e quelle di testo illustrato sono complementari. Nelle parti a fumetti entriamo nella soggettività dei vari narratori, il capriolo, la carabina, eccetera, così come nelle parti di testo illustrato abbiamo la finzione inversa: la presunta oggettività di un narratore onnisciente, ossessionato dalla realtà dei fatti.

Nei due libri, spesso la presenza umana è trattata come carattere secondario, addirittura

ridotta a una silhouette. È forse un modo per suggerire lo scarso controllo che abbiamo sulle nostre esistenze o sulla realtà?

G.N. È un’interpretazione possibile. Però no, è solo un espediente grafico, non simbolico: in Atto di Dio, non essendoci un protagonista umano, c’è una folla indistinta di personaggi, a volte riconoscibili solo dal profilo. Non credo che non abbiamo controllo sull’esistenza, almeno nei limiti del possibile.

In Nel mirino abbiamo ancora la folla indistinta nel finale e dunque ancora silhouette.

Perché sono identificabili solo dal mirino. È un’idea che viene proprio dal titolo, anche in

francese Les visés, significa «presi di mira».