Poco sappiamo di Gina Berriault. Poche sono le interviste che ha concesso nel periodo molto breve della sua notorietà e pochi anche i libri che ha scritto. Poche, spesso sfocate, le sue fotografie. In una sta in piedi contro la parete, ha il busto appena inclinato e le mani raccolte sopra la gonna di lana pied-de-poule, porta la coda di cavallo, forse sorride o forse insegue un suo pensiero. In una è seduta alla macchina da scrivere, stavolta ha i capelli sciolti, la mano premuta a pugno sulle labbra in un gesto che insieme agli occhi socchiusi suggerisce attenzione, si direbbe la ricerca di una frase. In un’altra piuttosto piccola la vediamo appoggiata di tre quarti a una ringhiera, indossa un trench chiaro, ha una frangia un po’ scomposta, lo sguardo spiegazzato di chi fronteggia il vento però ha freddo. Con sensibilità molto maschile e molto maschile narcisismo il suo coetaneo Richard Yates diceva di lei che diversamente da Katherine Mansfield aveva «palle da vendere» forse più di Jane Austen: tuttavia non molto è cambiato da quel 1972 in cui elogiandone il talento straordinario la collocava in cima alla lista degli scrittori viventi più grandi e meno conosciuti. Pochi sono ancora oggi i suoi lettori; addirittura pochi tra i lettori, c’è da scommetterci, sanno che Gina Berriault sia mai esistita e abbia scritto dei libri.

La fama rende più vulnerabili
Lei pensava d’altra parte che vivere nell’oscurità non sia poi così terribile «se ti rendi conto di non essere tu l’unico sconosciuto, se accetti che il mondo possa non conoscere te come tu non puoi conoscere il mondo». Nel 1997, di anni ne aveva già settantuno e da vivere solo altri due, dichiarò di sentirsi a disagio per l’improvviso interesse suscitato da Women in their Beds (1996), la sua terza raccolta di racconti. «Non amo essere così esposta perché il mio lavoro nasce dalla parte segreta di me stessa», dichiarò in quell’occasione, aggiungendo che la fama rende le persone più vulnerabili, più consapevoli della loro personale precarietà. Destinato a diventare il suo ultimo libro, con l’eccezione di una storia per ragazzi conclusa non molti giorni prima della morte, Women in their Beds non solo aveva ottenuto in pochi mesi sia il National Book sia il PEN/Faulkner Award, ma le aveva anche portato l’infinitamente prestigioso Rea Award per la short story: prima di lei quel premio lo avevano vinto Grace Paley e Richard Ford, lo vinceranno più tardi Alice Munro e John Updike. La critica sembrava improvvisamente accorgersi che a San Francisco viveva uno dei più grandi scrittori americani di racconti e che quello scrittore era una donna che lavorava nell’ombra da quasi quarant’anni, se aveva esordito nel 1960 con The Descent, il primo dei suoi quattro romanzi. A vivere nell’ombra Gina Berriault ci era abituata da sempre, incapace di dare a se stessa il giusto valore perché da sempre si sentiva differente.
Si chiamava in realtà Arline Shandling ed era nata a Long Beach il primo giorno del 1926, ma con gli altri abitanti molto wasp di quel sobborgo di Los Angeles la sua famiglia aveva ben poco da spartire. I genitori erano ebrei, entrambi emigrati dalla Russia. Durante la depressione si trovarono talmente in difficoltà da essere costretti a lasciare la loro casa per trasferirsi in un bungalow usando i fogli dei giornali – lo ha raccontato lei – come tende per oscurare le finestre. Nella psichedelica San Francisco approderà verso la fine degli anni cinquanta con il marito John Berriault, un musicista da cui avrà l’unica figlia e da cui poi divorzierà. Le sarebbe molto piaciuto diventare attrice, era pronta a pagarle una scuola di teatro la sua insegnante del liceo, ma quando il padre all’improvviso morì, lei era ancora adolescente, decise di abbandonare gli studi e di sostituirlo nel lavoro per aiutare la sorella e la madre che stava diventando cieca. Difficilmente avrebbe potuto sentirsi uguale alle sue compagne di classe, alle sue vicine di casa di Long Beach. «Questo è uno dei motivi per cui ho sempre voluto scrivere degli altri, la ragione per cui sono così curiosa degli altri. Perché sono come sono? Cosa nascondono e cosa ci rivelano? Dovevo scrivere di quello che vedevo per evitare di scrivere di me», ha dichiarato Gina Berriault nel corso di un’intervista in cui confessava anche il suo amore assoluto per Anton Cechov. Dalla sensibilità verso la differenza, dalla paura del rifiuto e del ridicolo, dalla consapevolezza dell’umiliazione proviene la sua miracolosa capacità di tradurre in parole il silenzio pieno di bisbigli che abita la mente di ogni personaggio.

Non condanna e non assolve
Chi sono del resto i suoi protagonisti se non uomini e donne che camminano lungo il confine incerto tra fallimento e sconfitta? In apparenza diversi, perdenti o abusati dalla sorte, inaccettabili. L’occhio di Gina Berriault non condanna né assolve, tantomeno accarezza, piuttosto si annida tra i loro sentimenti e li fa battere dentro di noi. È un meraviglioso regalo per i lettori italiani l’uscita, da Mattioli 1885, di Piaceri rubati («Frontiere», pp. 205, € 14,00), prima traduzione assoluta nella nostra lingua di un’opera della narratrice americana. Nella versione impeccabile, perfettamente empatica di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, il volume propone sedici dei ventuno racconti assemblati in Stolen pleasures (2011), antologia postuma ricavata dalle tre raccolte di Berriault e curata dal suo ultimo compagno, il romanziere Leonard Gardner. Musicisti sulla via del declino, giovani signore infelicemente maritate, ragazze in attesa di un bambino mai desiderato, scrittori orfani di ispirazione, vecchie bidelle solitarie, bibliotecari ingrigiti ma dal cuore praticabile e non solo per i libri: i piaceri cui allude il titolo, lo stesso di uno dei pochi brani a carattere vagamente autobiografico, sono lampi di felicità o rivelazione rubati alla vita e che una vita spesso la ripagano intera. Per i suoi personaggi, questo narra Berriault, sono però anche le gioie, le illusioni e le promesse che la vita ha rubato loro spingendoli fuori rotta rispetto al destino che un tempo avevano immaginato per sé. Diventano sulla pagina vortici di silenzio e spazi bianchi in cui il lettore precipita ascoltando il delicato, palpitante fruscio che emette l’anima di ognuno.
«Vorrei avere scritto venti racconti al posto di ogni romanzo. I racconti e alcuni romanzi brevi sono vicini alla poesia: con poche parole catturano l’essenza di una situazione, di un essere umano. È come provare a trafiggere con uno spillo il momento eterno». Il suo spillo Berriault sa infilzarlo da maestra dispiegando un’intera esistenza dentro gli eventi piccoli di una giornata o anche solo di un’ora. Utilizzando un punto di vista molto prossimo a quello dei suoi personaggi, ma con una distanza precisa di sicurezza, servendosi di una scrittura esatta, insieme lucente e morbida, elastica e affilata, trova una sua voce inconfondibile, quasi un sussurro, che sembra nascere all’unisono dalla testa dei protagonisti e da quella del lettore. «I grandi attraversavano porte fatte di lenzuoli appesi e cancelli di palazzi, e ovunque andassero erano accolti come membri della famiglia, e ovunque ti portavano con loro», conclude nel libro Hal Berger il musicista dopo avere ascoltato per tutta la notte l’album di una celebre chitarrista spagnola. Né sono troppo lontani dai suoi i nostri pensieri di lettori mentre attraversiamo incantati le porte e i cancelli delle storie di Gina Berriault. Quelle che ha continuato a scrivere nell’ombra anche per noi.