Gian Lorenzo Bernini non ha certo bisogno di presentazioni. La sua prodigiosa creatività, su tutti i fronti in cui l’ha esercitata, trova davvero pochi eguali nell’intera storia dell’arte. Le ritmiche ondulazioni del Rapimento di Proserpina alla Galleria Borghese, la lussureggiante selva di colonne che avvolge l’ingresso della Basilica di san Pietro, l’estasi d’amore divino di Teresa d’Avila in Santa Maria della Vittoria: basterebbero queste tre opere a dare sostanza alla sua fama di genio.
Eppure la sua statura di grande dell’arte non è stata sempre un fatto pacifico. Le aspettative del mito berniniano, suscitate dall’ampia letteratura agiografica che lui stesso aveva orchestrato in vita, sono clamorosamente disattese dopo la morte dell’artista. Col risultato che l’intonazione della fortuna critica di Gian Lorenzo è restata generalmente negativa fino alla vigilia della contemporaneità.
Già nel Settecento il suo nome si avvia a una lunga traversata nelle forche caudine dell’anti-seicentismo. I legislatori della rinascita dell’Antico – a cominciare dal tedesco Johann Joachim Winckelmann – confezionano per lui una condanna su tutti i fronti, contestandogli ogni aspetto del suo fare (le superfici increspate, i drammatici contrasti chiaroscurali di pieni e vuoti e finanche, superando il dato di stile, la gestione tirannica del suo ruolo dominante). In definitiva, Bernini era il maestro dal cui cattivo esempio sfuggire.
Da allora l’andamento delle sue quotazioni si è svolto secondo una linea tutt’altro che favorevole, e come poteva essere altrimenti, considerato il trattamento inclemente riservato alla cultura barocca per tanto tempo? Semmai c’è da restare colpiti di quanto, nonostante le oscillazioni del gusto, l’artista sia sopravvissuto nella mente dei colleghi. Ed è questo uno dei punti di arrivo più originali e sorprendenti che emerge dal libro Bernini scultore Il difficile dialogo con la modernità di Lucia Simonato (Mondadori Electa, «Pesci rossi», pp. 301, euro 30,00), ovvero una biografia della ricezione della scultura berniniana tra l’ultimo Settecento e l’inizio del Novecento.
L’autrice istituisce nessi e annoda critica, letteratura e fonti iconografiche (la galleria di immagini scelta per la rassegna di desunzioni comprende, come prevedibile, sculture ma anche disegni e medaglie), mettendo in piedi un mirabile esercizio di ridefinizione storiografica. Percorrendo pazientemente i secoli che fanno da ponte tra il suo tempo e il nostro risulta chiaro, non solo che sono stati i più acerrimi nemici del Bernini a trovare le parole giuste per dare forma alla sua poetica, ma anche che la stella cadente di Gian Lorenzo è stata sostenuta dalla pratica artistica. Volendo istituire un confronto con un altro libro sul tema: se La libertà di Bernini di Tomaso Montanari ha incrinato l’immagine del rapporto pacifico tra lo scultore e la sua società, evidenziando le ombre che ne accompagnarono l’esistenza, il lavoro della Simonato mette in evidenza le luci nascoste che ne hanno bilanciato la cattiva reputazione dopo la scomparsa. Dentro un confine strettamente figurativo, pur in mancanza il più delle volte di esplicite assoluzioni, Bernini restò un punto di riferimento e la sua ombra occupa così un arco cronologico vastissimo, oltre due secoli di scultura europea.
Il fatto è che per molto tempo il magistero berniniano risulta tanto ingombrante da portare a emularlo anche chi aveva deciso di agire professionalmente in antitesi a quella grammatica. Spesso si tratta di citazioni programmatiche, altrove di semplici concomitanze. Tanto che nel 1787 (oltre cent’anni dopo la morte dell’artista) l’antiquario Aloys Hirt giunge a notare: «Gli italiani sono ancora molto attaccati a Bernini». Senza spingersi troppo lontano, lo stesso Antonio Canova, l’esponente più in vista della tendenza neoclassica italiana, ebbe frequentazioni berniniane. Se nella Maddalena giacente del Museo di Possagno prosciugherà il ritmo del mare mosso che ondeggia sul corpo disteso della Beata Ludovica Albertoni con la melodia di un nudo volutamente sobrio, ancora l’Amore e Psiche del Louvre venne giudicato dai contemporanei troppo incline a quell’esempio di sofisticazione iperlevigata delle forme. Questa ambivalenza racconta di una difficile transizione.
Il libro offre una ricca campionatura delle letture suscitate dall’opera berniniana nel corso dell’Ottocento e in questo si giova anche di un’affermata tradizione di studi sull’interesse per la statuaria barocca nel XIX secolo, fenomeno che in Francia ha preso il nome di «Néo-baroque». È curioso scoprire allora quanto dallo stesso personaggio, figura poliedrica e complessa, si sia potuto trarre una tale varietà di letture, spesso anche a costo di interpretazioni parziali e di malintesi (specie se fondati su attribuzioni errate).
Ad esempio, Bernini affiora come pretesto per divagazioni politiche nello Spartaco di Vincenzo Vela che, ansioso di rinfrescare il manierismo d’accademia, evidentemente vedeva nell’aura scostante del David della Galleria Borghese un senso di rottura, non solo figurativa ma anche sociale. Presso la Francia di Napoleone III è un altro aspetto dello scultore a imporsi. La disinvoltura voluttuosa dei suoi corpi femminili si riflette nella Danza di Jean-Baptiste Carpeaux per l’Opéra di Parigi e forse nelle Bagnanti tondeggianti e sontuose di Renoir.
Nell’Italia postunitaria la prima immagine ufficiale dello scultore trova la sua cifra ideale nella retorica del patriottismo. Il recupero del Bernini corrisponde all’esaltazione del genio italiano: «Firenze gli diede lo spirito, Napoli la culla, Roma la gloria». Su questo tema ci sarebbe molto da dire. Andrea Sperelli, il protagonista del romanzo Il piacere di Gabriele D’Annunzio, con un abito mentale del tutto scevro di pregiudizi antiquari, ricava l’impressione diretta del fascino evocativo del Barocco nelle sue passeggiate romane. Bernini gli richiama alla mente allora un mondo lontano e consolante, quasi esotico nella Roma umbertina. In più di un quadro il pittore Giovanni Boldini (che pure avrebbe potuto essere della partita dei testimoni a discarico dell’artista), invece, trasfigura coi suoi tocchi affilati il calco col Leopoldo de’ Medici che conservava in studio.
La celebrazione per i trecento anni dalla nascita (1898), la mostra in Campidoglio (1899) e la monografia di Stanislao Fraschetti (1900) sono il segno tangibile di una nuova consacrazione e, anche se il gusto precede la consapevolezza storiografica e lo stigma verso il Seicento resta in piedi (appena al 1888 risale Rinascimento e barocco di Heinrich Wölfflin che avrebbe orientato a un profondo ripensamento del Barocco), incoraggiano una diffusa ammirazione nei confronti del Bernini.
E che all’alba del Novecento la memoria dello scultore conservasse ancora tutta la sua forza narrativa, niente affatto corrosa dal tempo, lo dimostra anche un disegno di Umberto Boccioni del 1913. Per l’estensione della figura nello spazio l’artista guarda all’Apollo e Dafne della Galleria Borghese e al Nettuno e Tritone oggi al Victoria & Albert Museum di Londra, e a quel carico di dinamismo e trasformazione che un futurista poteva sicuramente apprezzare. All’ombra di Bernini ci si avvia verso la scultura Forme uniche della continuità nello spazio dello stesso anno. Si comprende così come con Bernini non si chiuda un vecchio capitolo, ma se ne apra uno nuovo. La sua opera concorre a comporre la mappa delle forme espressive della modernità.