Nel 1714 Gottfried Christian Götze, bibliotecario della Ratsbibliothek di Lipsia, acquistò dal mercante d’arte Francesco Antonio Renzi una raccolta di disegni di artisti italiani barocchi, che fu ceduta nel 1954 al Museum der bildenden Künste della stessa città. Una cospicua sezione – circa 200 fogli, di cui un centinaio autografi – di quell’insieme è costituito da disegni berniniani, provenienti con ogni probabilità dalla collezione della regina Cristina di Svezia. A oltre trent’anni di distanza dall’esposizione curata da Irving Lavin per Princeton e altre località americane, una selezione di questo fondo grafico, accompagnata da altri fogli provenienti dalle più importanti istituzioni museali italiane ed estere, è stata recentemente esposta a Lipsia e viene ora presentata, con alcune varianti, in una mostra di rara qualità nelle sale di Palazzo Barberini (Il laboratorio del genio Bernini disegnatore, a cura di Giovanni Morello, Sebastian Schütze e Jeannette Stoschek, fino al 24 maggio; catalogo in corso di stampa).
Stando a un aneddoto raccontato da Filippo Baldinucci, il giovanissimo Gian Lorenzo, che già si era conquistato una certa fama, fu ricevuto da Paolo V, il quale gli chiese di disegnare a penna sul momento una testa. In una mezzora l’artista delineò un San Paolo per il pontefice, il quale, dopo aver ricompensato il fanciullo, gli augurò di poter diventare «il Michelangelo del suo secolo». Infatti, giunto a Roma assieme al padre, Bernini aveva perfezionato la sua tecnica continuando a disegnare quotidianamente per circa tre anni le statue antiche conservate in Vaticano. Testimonia in mostra questo periodo di formazione uno Studio del Laocoonte a sanguigna, in cui l’attenzione si concentra sulla resa plastica dell’anatomia del busto del sacerdote. Lo studio approfondito dei modelli maschili, che venivano accuratamente scelti dall’artista, emerge anche da alcuni disegni d’Accademia, in cui l’osservazione del dato di natura si combina con una traduzione prepotentemente scultorea delle figure, di cui non è difficile rintracciare la corrispondenza delle pose con alcune statue in marmo concepite da Bernini, come le statue dei Quattro Fiumi per la Fontana di Piazza Navona. La singolare capacità di congiungere sondaggi fisionomici e psicologici si esprime al meglio in una campionatura di ritratti di personaggi di cui non sempre è nota l’identità e, al meglio, nell’intensissimo autoritratto senile in gessetto bianco e nero da Windsor, esposto in continuità con quello giovanile ad olio su tela della Galleria Borghese e con il ritratto dell’artista ormai anziano dipinto da Giovan Battista Gaulli della Galleria Nazionale d’arte antica. Molto apprezzate dai contemporanei e dai primi biografi furono anche le sue caricature, nelle quali – scriveva Domenico Bernini – «veniva a deformare, come per ischerzo, l’altrui effigie in quelle parti però, dove la natura haveva in qualche modo difettato, e senza toglier loro la somiglianza, li rendeva sù le carte similissimi, e quali in sostanza essi erano, benche se ne scorgesse nobilmente alterata, e caricata una parte». In mostra è possibile ammirare quelle di Scipione Borghese, di un anonimo cavaliere francese e di Antonio Barberini e Flavio Chigi, in cui è straordinaria la sintesi espressiva delle personalità dei ritrattati, restituite con pochi tratti di penna.
La capacità inventiva di Bernini si esplicava in un’attitudine al disegno che si avvaleva dei più svariati supporti. Da alcuni passi del diario di Paul Fréart de Chantelou sappiamo che Bernini era abituato a disegnare nella propria casa, segnando sul muro con il carbone le idee man mano che gli venivano in mente; oppure sul pavimento, come avvenne nel 1665 a Parigi in presenza del ministro Colbert, per il quale tracciò sempre con il carbone il disegno della piazza del Louvre. Questa propensione ritorna anche in cantieri come quelli delle cappelle e degli altari delle chiese, cui è dedicata un’altra sezione, se si prende in considerazione l’esempio della Cappella Cornaro nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria. Agli studi del patetico volto della Santa Teresa presenti in mostra potrebbero essere idealmente ricongiunti i disegni abbozzati sulla trabeazione – e per questa ragione solitamente invisibili – degli stucchi con putti reggifestone a essa immediatamente soprastanti, eseguiti da collaboratori. Uno sguardo ravvicinato al processo creativo di Bernini è offerto anche dalla serie di studi preliminari al marmo del profeta Daniele per la Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo a Roma (1655-’57). I fogli lasciano comprendere la genesi della figura a partire dalla massa muscolare del torso sino alla definizione degli altri dettagli e all’elaborazione del bozzetto in terracotta, prestato dai Musei Vaticani.
In un altro passo del suo diario il signor de Chantelou riporta direttamente queste parole pronunciate da Bernini: «Questo è abituale per gli spiriti vivi e di grande immaginazione: accumulare sullo stesso soggetto pensieri su pensieri, quando ne viene uno, lo disegnano, quando ne viene un secondo, lo annotano ancora, poi un terzo ed un quarto, senza elaborare o perfezionare nulla soffermandosi sempre sull’ultimo pensiero per l’amore che si ha per la novità». Che Bernini eseguisse più pensieri su singoli progetti è rivelato dalla sezione dedicata alle imprese realizzate per la Basilica di San Pietro, come ad esempio il Baldacchino in bronzo dorato. In questo caso accurati disegni di dettagli decorativi, come il lambrequin con le api barberiniane o la decorazione delle colonne tortili, di mano di Francesco Borromini sono affiancati ad altri di Bernini, provenienti dall’Albertina di Vienna e dalla Biblioteca Vaticana. Diverse soluzioni del coronamento tracciate a penna, sanguigna o gessetto – una delle quali è stata scelta come logo della mostra – dall’artista si possono osservare su uno stesso foglio, mentre ulteriori prove dimostrano lo studio del rapporto dimensionale tra la cupola michelangiolesca e lo stesso Baldacchino. Altri disegni consentono di seguire l’evolversi del progetto della Cattedra di San Pietro da una prima idea che prevedeva una terminazione con Cristo con in mano le chiavi della potestà pontificia fino alla sua sostituzione con la soluzione definitiva della gloria di angeli. Tra le quattro statue destinate a occupare le nicchie della tribuna della Basilica, Bernini scolpì personalmente il San Longino, per il quale eseguì il bozzetto in terracotta ora frammentario esposto in mostra, sulla cui superficie i solchi prodotti dalla stecca anticipano nel piccolo formato l’effetto scabro ottenuto con la gradina nella grande versione marmorea. Infine, un altro gruppo di fogli consente di verificare le oscillazioni progettuali del Tabernacolo per la Cappella del Ss. Sacramento, con le varianti del tempietto microarchitettonico con cupola, al quale pensò di aggiungere due campanili laterali a somiglianza dello sfortunato piano per i due campanili per la Basilica vaticana, e degli angeli di sostegno. Davanti a una varietà di idee elaborate e per poter adottare la soluzione più opportuna Bernini consigliava – è sempre il signor de Chantelou a riferirlo – di «lasciare riposare le varie idee senza riconsiderarle per un mese o due. Dopo, si è nella condizione di scegliere quale sia la migliore».
In mostra è dato ampio spazio anche ai progetti per il Colonnato di Piazza San Pietro e per alcune delle statue di santi sul suo coronamento, per la Scala Regia e per la statua equestre di Costantino nel Palazzo Vaticano, per la Fontana dei Fiumi, per la statua marmorea di Luigi XIV, pensata per la scalinata di Piazza di Spagna e poi inviata a Versailles, dove non fu particolarmente apprezzata; per il rimontaggio di un antico obelisco su un piedistallo a forma di elefante, poi sperimentato in Piazza della Minerva. La rassegna si conclude con un affondo sulle arti decorative. Bernini fu artista universale, in grado di servirsi del proprio talento anche per apparati effimeri e fuochi pirotecnici, reliquiari, medaglie, alari da camino oppure per lo specchio ideato per Cristina di Svezia, di cui è esposto il celebre disegno di Windsor, in cui la figura del Tempo che solleva il velo che copre lo specchio stesso allude all’immagine emblematica del Tempo che scopre la verità: tutto – come riconosceva Baldinucci – con «una tal franchezza di tocco, che è propriamente un miracolo».