Fra due settimane le primarie politiche americane giungeranno al termine con la votazione nei Dakota, Montana, New Jersey, New Mexico e California. Per Donald Trump, ormai senza avversari si tratta di «finire i giri» e ottenere i 1237 delegati richiesti per l’investitura. Per i democratici la partita è ufficialmente ancora aperta.

Sulla carta i delegati in palio quest’ultimo «supermartedì» (oltre 800) sarebbero tecnicamente sufficienti a colmare il divario di quasi 300 delegati fra Hillary Clinton e Bernie Sanders. Malgrado le speranze dei «sandersiani» in realtà i giochi sono fatti. In virtù degli oltre 500 «superdelegati» assegnati dal partito, Hillary sarà la candidata democratica che si contenderà la casa bianca con Trump.

Dietro le quinte però rimane da giocarsi una cruciale partita politica destinata a rivelare l’effettivo peso della sinistra «resuscitata» dalla Bernie revolution.

Il 25 luglio a Philadelphia si svolgerà la convention che dovrà sancire l’investitura della candidata e stabilire il programma con cui democratici si presenteranno alle elezioni.

I congressi elettorali sono anche la sede in cui avviene la mediazione fra le correnti – e mai come quest’anno sarà essenziale per capire se e come le istanze di Sanders verranno incluse nella piattaforma del partito. Sanders ha montato una sfida efficace oltre ogni pronostico, senza fare sconti a Clinton in particolare sui suoi legami con gli interessi economici di Wall Street e l’interventismo americano, una campagna che ha comunque precluso la narrazione di investitura plebiscitaria che i clintoniani avevano inizialmente sperato di costruire.

Questa settimana i 10 milioni di voti raccolti hanno dato i loro primi risultati concreti con la «concessione» a Sanders di scegliere 5 dei 15 integranti del platform committee incaricato di stilare il programma del partito (sei spetteranno a Clinton e quattro saranno «neutrali»).

[do action=”citazione”]E i nomi designati da Sanders riflettono un programma decisamente di sinistra.[/do]

Cornel West è una delle voci più eloquenti del movimento afro americano, vicino a Black Lives Matter e fautore una di una lucida critica da sinistra alle politiche moderate di Obama.

Keith Ellison anche lui afro americano è stato il primo deputato musulmano eletto al congresso. L’accademico Jim Zogby è uno dei principali attivisti pro-palestinesi che ha paragonato l’occupazione israeliana all’olocausto (ricevendone numerose minacce di morte).

Bill McKibben è un ambientalista di punta che ha documentato il mutamento climatico in numerosi libri. La quinta rappresentante di Sanders è la militante indiana americana Deborah Parker.

È una lista come ha affermato Sanders, atta a favorire «una piattaforma che riflette le vedute di milioni di elettori che vogliono un partito che si esprima per i lavoratori e non solo per Wall street, le case farmaceutiche, l’industria petrolifera e altri poteri forti».

La facoltà di sceglierla è vista come una concessione importante alla sinistra da parte dell’establishment, che convalida la strategia di continuare la campagna fino in fondo contrariamente ai ripetuti inviti a ritirarsi.

È notevole soprattutto l’inclusione delle voci pro-palestinesi, uno storico tabù per entrambi i partiti, particolarmente emblematica viste le posizioni fortemente filo-israeliane di Hillary.

Un buon (iniziale) auspicio per la nuova sinistra emersa con Sanders e quella «ala democratica del partito democratico» come la definì 12 anni fa Howard Dean, l’ultimo «insorto progressista» precursore di Bernie.