Sui protagonisti de I colori dell’addio pesa un destino comune: hanno qualcosa da farsi perdonare dalle persone da cui vogliono prendere commiato e far emergere queste verità scomode sembra essere la sola strada perché ciò sia possibile, la condizione stessa perché questa definitiva separazione abbia luogo. Nella raccolta di racconti, da giovedì in libreria per Neri Pozza (traduzione di Susanne Kolb, pp. 256, euro 189) e che Bernhard Schlink presenterà lo stesso giorno a Mantova nell’ambito del Festivaletteratura – ore 21 a Palazzo San Sebastiano con Marilia Piccone – l’autore tedesco, tra i più letti e celebrati del suo Paese nelle ultime stagioni, indaga piccoli e grandi tradimenti che sono stati parte spesso significativa di un rapporto d’amore, d’amicizia o di un semplice incontro. Segreti che vanno svelati, e ancor prima assunti da parte dei protagonisti, perché nel dire addio si riesca anche a lasciar andare quella parte di noi che vi si era a lungo intrecciata.

Per l’ex giudice della Corte Costituzionale e docente di Filosofia del diritto che vive da tempo tra Berlino e New York, si tratta per molti versi di tornare, con un respiro più intimo e ravvicinato su temi già lambiti da alcuni dei suoi romanzi più celebri, da Il lettore a Olga, entrambi per Neri Pozza, che hanno fatto seguito al suo esordio narrativo alla fine degli anni Ottanta con le indagini del detective Gerhard Selb, pubblicate da Garzanti.

La sua chiave di accesso alla personalità dei protagonisti di ciò che scrive sembra essere ancora una volta rappresentata da una sorta di indagine dentro le zone d’ombra che hanno contribuito a definirne il profilo. Tutti hanno qualcosa da nascondere a se stessi o agli altri?
Quando qualcosa è difficile da ricordare, e questo a causa di molte ragioni, tendiamo tutti a nascondere, cercare di dimenticare, sopprimere per quanto possibile quei ricordi in noi stessi come negli altri. Si tratta di vicende nelle quali è emerso con evidenza tutto il nostro fallimento o il fatto che ci siamo resi colpevoli di qualcosa di grave o, ancora, contesti in cui siamo stati capaci di piegarci a compromessi imbarazzanti. Ma si può trattare anche di eventi talmente belli che preferiamo rimuovere dalla nostra memoria, smettere di ricordare perché la consapevolezza che sono passati per sempre ci fa troppo male. Eppure tutti questi tentativi di nascondere ciò che è stato non sono poi così affidabili e un incontro fortuito, un evento casuale ha il potere di sospingerci nuovamente verso quei ricordi, che ci piaccia o meno.

Il tempo dell’addio è necessariamente anche quello del bilancio, tiriamo le somme di ciò che siamo stati e di chi abbiamo incontrato. A dominare i racconti è però un sentimento di solitudine che non è solo il risultato del fatto che gli altri ci hanno lasciato per scelta o per necessità, ma che sembra quasi definire la forma dell’esistenza contemporanea, di vite che si sfiorano senza incontrarsi davvero.

Dicendo addio alle persone che sono state importanti per noi o che ci stanno a cuore rinunciamo sempre un po’ anche alle nostre aspettative, alle speranze verso cui avevamo guardato: stiamo prendendo commiato anche da quello che avevamo pensato di costruire insieme a loro. Salutiamo costoro dicendo addio anche ad una parte non secondaria di noi stessi. Allo stesso modo le persone dicono anche addio ad un’immagine di sé, a qualcosa che avevano condiviso con gli altri, a ciò che avevano dato importanza e li aveva resi degli amici, degli amanti, una presenza per qualcun altro. Perciò è proprio così: ogni separazione da qualcuno, ogni addio, porta con sé implicitamente anche l’esperienza della solitudine.

Tra le coppie descritte nel libro domina l’idea che era già al centro de «Il lettore», dove un adolescente si innamora di una ex guardiana di Auschwitz, vale a dire l’incontro tra persone di età differenti. Di questo contesto sembra interessarla soprattutto quelli che appaiono come rapporti di potere, l’incertezza e la fragilità di chi pensa di non meritare o di non poter mantenere quel legame. Sono amori che annunciano sempre un addio?

Prima di tutto, se c’è una grande differenza di età in una coppia è probabile che i due non vivranno per lo stesso periodo di tempo: è fatale che uno di loro venga a mancare prima, lasciando solo l’altro. Ma, soprattutto, è difficile trovare una vera vicinanza in un rapporto d’amore quando la condivisione delle medesime esperienze, dei progetti e l’idea stessa della felicità, si deve misurare con una forte differenza di età. I «mondi» nei quali si muove ciascuno di noi hanno spesso a che fare con la propria età, così, in una coppia del genere, tutto questo rende talvolta le cose molto difficili. Ma se diventa troppo difficile, è giusto dirsi addio.

L’idea di scavare nella memoria individuale o collettiva per giungere se non alla verità perlomeno alla consapevolezza, accompagna tutta la sua opera, si tratti di figure legate al nazismo o alla Shoah, al colonialismo in Africa, al nazionalismo che ha condotto alle guerre, al terrorismo della Raf, o, come per il protagonista di uno dei racconti, alla delazione su cui si basava il regime della Ddr. C’è qualcosa di specificamente tedesco in questo sforzo?
Come insegna Baal Shem Tov (rabbino e mistico polacco del 18° secolo, fondatore del moderno chassidismo, ndr) la memoria è il segreto della salvezza. E questo è vero soprattutto se si ha a che fare con dei ricordi particolarmente traumatici. Ricordi di eventi che preferisci nascondere, dimenticare, evitare. Così, guardando al proprio passato, la Germania scorre in rassegna tante di quelle vicende che nutrono il suo senso di colpa che non vorrebbe fare altro che liberarsene definitivamente. Tuttavia, la ricerca della salvezza esige che si sia in grado sia di ricordare che, talvolta, di dimenticare il passato: richiede che non lo si cancelli ma che lo si guardi anche senza temerlo per capire davvero cosa contiene. La scelta del ricordo, da questo punto di vista, deve essere sempre consapevole, mai data per scontata.

Questo libro è uscito in Germania nel pieno della pandemia, e nel nostro Paese mentre la situazione è ancora incerta, vale a dire durante una stagione che ha costretto molti a dire addio a persone care ma anche ad immaginare che la propria vita precedente fosse in qualche modo finita, o perlomeno cambiata in modo significativo. C’è una correlazione tra i temi di cui tratta e il contesto che stiamo ancora vivendo?
Non sono convinto che la pandemia ci stia insegnando a dire addio. In questi anni abbiamo dovuto separarci da cose ben più importanti rispetto alle nostre abitudini quotidiane modificate dal fatto di indossare una mascherina, sottoporci alla vaccinazione o dover affrontare il lockdown. Credo che dovremmo preoccuparci di quanto sta avvenendo davvero intorno a noi, se siamo o meno capaci di prenderci cura di chi sta male. E, accanto a questo, di quanto siano stabili le nostre democrazie liberali basate sullo stato di diritto: devono poter rappresentare un approdo sicuro per chi ne ha bisogno e continuare la battaglia contro il cambiamento climatico che mette in dubbio il futuro del mondo in cui viviamo. Eppure, niente di tutto ciò sembra più contare, malgrado siano le vere minacce che pesano sul nostro stile di vita.

Tra i quesiti alla base di questa edizione del Festivaletteratura, a cui lei prenderà parte giovedì, uno interroga tutti noi: «C’è ancora posto per il futuro?». Come risponde alla domanda che verrà posta a Mantova?
C’è spazio per il futuro? Il futuro sta arrivando e non dipende da noi, possiamo fare qualcosa per migliorarlo anche se temo che guardando ai problemi attuali degli esseri umani sarà probabilmente ancora più difficile del presente. Sono comunque certo che accanto ai problemi riusciremo a preservare anche le gioie: la musica, l’arte, la letteratura. E, soprattutto, l’amore.

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