In una recente intervista Bernhard Schlink ha dichiarato di scrivere «per lo stesso motivo per cui gli altri leggono: nessuno vuol vivere una vita sola». L’esplorazione immaginaria di esistenze alternative alla propria è l’attività tanto vana quanto intrisa di rammarico cui lo scrittore nato a Bielefeld nel 1944 destina i protagonisti di Donna sulle scale (traduzione di Susanne Kolb, Neri Pozza, pp. 208, € 18,00).

A soggiacere alla tentazione di raffigurarsi al centro di una storia differente da quella effettivamente vissuta è anzitutto l’io narrante, un anziano avvocato senza nome, vedovo, che inaspettatamente, mentre è a Sidney per lavoro, si ritrova di fronte a un dipinto che, vari decenni prima, aveva svolto un ruolo fatale nel suo destino.
Non ci è dato sapere quale piega avrebbe preso la sua vita se Irene, la giovane donna bionda raffigurata nel dipinto mentre scende nuda le scale, avesse accettato l’aiuto (e l’amore) che egli le aveva offerto, allorché due uomini egualmente prepotenti si stavano contendendo tanto quel quadro quanto lei stessa, che ne era il soggetto. All’epoca, tuttavia, la ragazza, caparbia e ribelle, aveva scelto un’altra via per liberarsi dall’asfissiante, duplice tutela del marito, un ricco industriale, e del pittore che l’aveva ritratta su sua commissione e di cui era diventata l’amante.

Se per il protagonista l’esistenza di Irene successiva al loro ultimo incontro è rimasta un enigma, non meno misteriose appaiono le circostanze che hanno portato la tela (ispirata, come rivela Schlink, a un’opera di Gerhard Richter, Ema) da Francoforte fino in Australia.

Aggrappandosi a questa esile traccia, l’avvocato ritrova non lontano da Sidney anche la Irene in carne e ossa, mentre in una casetta isolata in riva all’oceano tenta di dimenticare il suo passato di terrorista.
Come l’io narrante, anche la ormai anziana ma pur sempre volitiva signora si domanda incuriosita come sarebbero andate a finire le cose, qualora si fosse affidata a quell’uomo di legge un po’ noioso, ma indubbiamente affascinato da lei.

Ex giudice federale con una inclinazione per i risvolti etici delle azioni umane, Schlink confeziona un romanzo nitido che tuttavia risente di qualche frettolosità. Alquanto stereotipate, infatti, le figure del marito di Irene e del suo pittore-amante, individui egocentrici che servono solo a far risaltare meglio la fisionomia a tutto tondo della protagonista.

Autore non indifferente a sfide complesse (il romanzo che nel 1995 l’aveva reso celebre, Ad alta voce, era centrato sull’amore tra un quindicenne e l’ex sorvegliante di un lager nazista), Schlink si accolla il compito non semplice di persuadere il lettore ad aderire al punto di vista del narratore, un individuo arido e caratterialmente smorto, convinto che il destino gli debba ancora molto. Tuttavia definitivo e implacabile è il giudizio di Irene circa la sua mancanza di originalità: «…cerco di immaginare la tua vita dentro il guscio. Forse, quando si vive dentro il guscio, il mondo fuori diventa per forza un cliché».