«Nei miei libri tutto è artificio, cioè tutti personaggi, gli eventi, gli accadimenti sono rappresentati su un palcoscenico e lo spazio della scena è totalmente buio. Personaggi che entrano in uno spazio scenico, e i loro contorni sono più riconoscibili rispetto a quando appaiono alla luce naturale». Così Thomas Bernhard nel monologo Tre giorni (1970), una delle sue più significative dichiarazioni di poetica. L’autore di più di venti testi per il teatro ci invita a vedere anche i suoi romanzi come «teatro», e continua così: «Quando si apre un mio lavoro accade questo: ci si deve figurare di essere a teatro, con la prima pagina si alza un sipario, appare il titolo, oscurità totale – lentamente, dallo sfondo, dall’oscurità, emergono parole che, lentamente, si trasformano in accadimenti di natura esteriore e interiore, particolarmente chiari proprio grazie alla loro artificiosità». Alla «teatralità», all’«artificiosità», proclamata, esibita, eseguita attraverso una grande prosa, manieristica, infinita, labirintica, grottesca, musicale, è sottesa però – è sempre Bernhard che ce lo dice – una fortissima presenza del vissuto. A Krista Fleischmann che gli chiede, intervistandolo, se ci sia una differenza tra lo scrittore e il personaggio privato, risponde così: «Confluiscono, come si dice elegantemente, in una unità, deve essere un’unità; da quando ci sono scrittori e critici si è sempre letto: “Arte e persona devono essere un’unità”, perché altrimenti non sono nulla. A questo mi sono sempre attenuto».
Ma come viene presentato il «personaggio privato»? Quando lo stesso Bernhard, tra il 1975 e il 1982, pubblica la sua autobiografia, scandita in cinque volumi – L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo, Un bambino –, nel momento in cui registra «i fatti eccezionali, quelli ridicoli, eccetera eccetera» della sua vita, non può fare a meno, raccontandoli, di trasformarli, di stilizzarli, di immergerli in una dimensione «teatrale». Perché lui stesso, in ogni momento, vive per «raccontare». Ricorda Viktor Hufnagl, che l’ha conosciuto da vicino: «Mio padre era un pessimo violinista e Bernhard l’ha messo nella Forza dell’abitudine, per il ruolo recitato da Minetti. Ho conosciuto raramente una persona che si prende così ogni cosa per inserirla nel suo repertorio». In questo contesto, irrimediabilmente scenografico, plurimo, cangiante, dove il vissuto e l’artificio si intrecciano continuamente, chi voglia scrivere una biografia di Bernhard ha davanti un compito non certo facile. Ne viene a capo, come meglio non si potrebbe, Manfred Mittermayer (Thomas Bernhard Eine Biographie, Residenz Verlag, pp. 454, con 70 immagini, euro 28,00). Mittermayer, che insegna all’università di Salisburgo, ha scritto un profilo critico di Bernhard nel 1995, ha curato diversi volumi delle sue Opere complete presso Suhrkamp e lo conosce come pochi. Non cade nella «biographical fallacy» di voler «spiegare» l’opera con la biografia, stabilisce piuttosto un rapporto dialettico tra la ricostruzione della vita e i testi che noi leggiamo: «Non si può comprendere l’opera di Bernhard senza la sua biografia, ma non la si può spiegare partendo da questa».
Dopo la morte di Bernhard, nel 1989, sono stati pubblicati molti nuovi materiali. Tra questi spiccano il diario di Karl Ignaz Hennetmair (Residenz Verlag, 2000, tradotto anche in italiano: Un anno con Thomas Bernhard, L’ancora, 2011), il carteggio con Sigfried Unseld (Suhrkamp, ’09), gli «incontri» racccolti da Sepp Dreissinger (Müry Salzmann, ’11), i «ricordi» dell’amico Wieland Schmied (Bibliothek der Provinz, ’14). Su questi testi e su molti altri, ma soprattutto ricorrendo alle carte conservate nel Thomas-Bernhard-Archiv, costituito nel 2002 a Gmunden, a interviste, a documenti di ogni sorta, Mittermayer ci fa conoscere aspettti inediti e sorprendenti, ci restituisce luci e ombre della vita di Bernhard, cerca il suo volto e la sua voce.
La giovinezza di Bernhard, nato nel 1931 a Harlem, in Olanda, come figlio illegittimo, è carica di tensioni e di tristezze. La madre prova per lui solo astio e risentimento, nel 1936 sposerà il parrucchiere Emil Fabjan, che non adotterà mai Thomas. L’unico sostegno è il nonno, Johannes Freumbichler, un intellettuale originale e solitario, che lo salva dalla disastrosa atmosfera della scuola, che lo protegge e lo guida, che gli fa conoscere Schopenhauer e Montaigne. Il nonno è anche uno scrittore, ma frustrato, senza successo, dedito ossessivamente al suo lavoro fino a diventare «un assoluto tiranno»: la sua figura è mitica per Bernhard e si rifletterà nel destino di molti suoi personaggi. Nel 1949 la tubercolosi costringe Bernhard per mesi in un sanatorio, nel ’55 si iscrive al Mozarteum, l’Istituto Superiore di Studi Musicali di Salisburgo (esperienza da cui nascerà, nell’83, Il soccombente), pubblica le prime raccolte di poesie, scrive articoli e recensioni su giornali di Salisburgo e di Vienna. Nel 1967 gli viene diagnosticato un tumore, una sarcoidosi polmonare, contro cui, per vent’anni, combatterà con tutte le sue forze: «Se noi superiamo la malattia con la testa, è perché lo vogliamo».
In parallelo con la sua ricostruzione di questi anni, ricca e documentata, Mittermayer sottolinea acutamente il grandioso processo di mitizzazione che Bernhard opera nella sua autobiografia. L’insuccesso scolastico, che gli fa lasciare il Ginnasio per iniziare l’apprendistato in un negozio di generi alimentari, viene stilizzato – è una grande scena della Cantina – in un puro atto di volontà, nella decisione ostinata e carica di futuro di «andare nella direzione opposta». Così, la forza di vincere la malattia e di uscire vivo dal sanatorio viene ricondotta alla consonanza salvifica con un libro «mostruoso», insaziabile e radicale, con I demoni di Dostoevskij. Anche l’esperienza del Tonhof, a Maria Saal, il podere carinziano del compositore Gerhard Lampersberg, luogo d’incontro di musicisti e scrittori, come H.C. Artman, Peter Turrini, Christine Lavant, Friedrich Cerha, dove vanno in scena tre suoi brevi drammi, ma che si conclude con una clamorosa rottura, diventerà l’oggetto di una violentissima stilizzazione. Sarà, più di trent’anni dopo, con il romanzo A colpi d’ascia (1984), dove Lampersberg, sotto il nome trasparente di Auersberger, è presentato in una luce scandalistica e come un compositore ambizioso e fallito. È uno dei tanti grandi scandali – Lampersberg chiede e ottiene il sequestro del libro – che Bernhard si compiace di provocare.
Con i grandi romanzi Gelo (1963), la storia del pittore Strauss, un folle di genio che si è ritirato, con il suo Pascal in tasca, in una valle oscura e feroce, e poi va a morire nella neve, e Perturbamento (’67), dominato dagli interminabili monologhi del principe Saurau, grotteschi e catastrofici, ma anche liberi e audaci, romanzi accolti con stupore e consenso, subito tradotti in inglese e in francese, Bernhard si afferma definitivamente nel mondo letterario europeo. I testi teatrali Una festa per Boris, messo in scena nel 1970 ad Amburgo da Claus Peymann, e L’ignorante e il folle, che va in scena nel ’72 al Festival di Salisburgo, con Bruno Ganz nel ruolo del protagonista e la regia di Peymann, aprono una straordinaria serie di drammi, che si concluderà nell’88, nel Burgtheater di Vienna, con Piazza degli eroi.
In questi anni Bernhard viaggia molto, dalla Polonia alla Turchia, con lunghi soggiorni a Bruxelles – in casa dell’amico Alexander von Üxküll: qui scrive Perturbamento –, in Spagna e in Portogallo. In patria, vive ora a Vienna, ora nell’Alta Austria. Nel 1965 ha acquistato e restaurato un’antica «corte» (Vierkanthof) a Ohlsdorf, nei pressi di Gmunden, e vi si reca volentieri. Qui l’agente immobiliare Karl Ignaz Hennetmair diventa il suo factotum, quasi il suo segretario personale, e nel ’72 ricostruisce in un diario, con minutissime annotazioni quasi giornaliere, la sua «convivenza» con lo scrittore. È un documento vasto e bizzarro, che ci fa però entrare nella quotidianità di Bernhard, prendendo nota di tutti i suoi movimenti, riferendo confidenze di ogni sorta. Ancora più teatrale è il rapporto con Peymann e con Sigfried Unseld, scandito da irriverenti e divertiti commenti sulla serie di scandali provocati dai drammi e dai romanzi. Il carteggio con Unseld registra un lungo rapporto, non sempre facile, con il grande editore di Francoforte: Bernhard pubblica da Suhrkamp quasi tutti i suoi testi. Si parla necessariamente di contratti, di anticipi, di ritardi di consegna dei testi … Lo scrittore si lamenta di essere trattato come «uno schiavo», minaccia di pubblicare altrove, chiede continuamente soldi. Unseld si sente «sotto ricatto», ma se la cava sembre abilmente. Alcune lettere di Bernhard sono al livello della sua prosa più scatenata e fantasiosa: «Caro Unseld, ditemi perché fate così poca pubblicità per me e così tanta per quel budino piccolo borghese di Martin Walser, perché avete versato nel serbatoio della mia Rolls-Royce solo un litro di benzina, piantandola poi lì, e avete fatto installare nell’Opel-Kadett del vostro amico quattro o cinque serbatoi e li avete fatti riempire di Super».
Man mano, attraverso i documenti, le lettere, le interviste, letti e interpretati, ma senza forzature, in parallelo con le opere, Mittermayer delinea il volto del personaggio Bernhard, con le sue frequentazioni e le sue amicizie, con le sue abitudini e le sue idiosincrasie, con le sue sfide e i suoi paradossi. Ne esce del tutto ridimensionato il terribilismo di Bernhard, la sua facies oscura, di cui tanto si è favoleggiato. C’è invece un continuo oscillare tra il tragico e il comico, dove alla fine prevale, sia nell’opera che nella vita, l’arte dell’esagerazione, il gusto del «teatro». Chi l’ha conosciuto da vicino ricorda i suoi infiniti discorsi pieni di giochi di parole, le sue improvvisazioni burlesche, che facevano ridere per ore.
Intorno ad alcuni grandi scrittori – Stendhal, Bernhard … –, dove la vita e l’opera sono volutamente e teatralmente intrecciate, si cristallizza come una «leggenda», coltivata e amata da una setta segreta di lettori. In questo libro, attraverso una sottile rete di corrispondenze, Mittermayer è riuscito a raccontarci la vita e la «leggenda» di Thomas Bernhard. Bernhard, eterno teatrante: «Un attore può permettersi di cingere una corona senza essere pazzo».