Quante probabilità ci sono di forare incappando in un frammento di vetro aguzzo mentre si scivola via lungo uno stradone del centro di Milano, su ruote fini come fine può essere una beffa? Non si sa se ha avuto il tempo per chiederselo Ganna, ché poco dopo il suo arrivo il campione francese Cavagna, unico in grado di approfittare di quel caso avverso, imbocca a capo basso l’ultima curva sul percorso e finisce a cavalcioni a una transenna. Così il pronostico di tappa è salvo, trionfa Ganna con un brivido. E trionfa sul podio finale Bernal, in un tripudio allegro di bandiere colombiane. Gli fanno compagnia, secondo e terzo, Caruso e Yates.

Che Giro è stato? Un Giro con grandi ritorni, conferme, punti interrogativi e gradite sorprese. Grande ritorno nell’empireo dei campioni di Bernal. Dominatore da giovane predestinato al Tour, l’anno scorso si era ritirato senza nemmeno riuscire a pedalare per via del mal di schiena. Il colombiano ha dimostrato, oltre che gran classe, capacità di gestirsi non comuni alla sua età. Una caratteristica che gli è venuta bene per trionfare in rosa e che gli verrà bene per il prosieguo della carriera, l’impressione è che con i guai fisici dovrà imparare a convivere. Nell’ultima settimana si è assistito ad un bel duello di stili, quello ballerino di Yates e quello dolente del colombiano. Ricorda un po’ Coppi, Bernal, per gli occhi grandi e umidi sempre proiettati dal basso oltre il traguardo e per la maniera in cui il nasone e la grande bocca tagliano il viso. Non ha però il fisico del maestoso airone, piuttosto di un piccolo uccello di passo, che nessuno è riuscito a mettere allo spiedo.  Grande ritorno, poi, della gente a bordo strada. Il ciclismo più di ogni altro sport si nutre della simbiosi col suo pubblico. Forse perché ha le sue origini ancestrali, più che nei giochi agonistici in onore a Giove olimpio, nelle orge collettive ispirate da Dioniso.  

A proposito di pubblico, ha suscitato disappunto il ridimensionamento del tappone dolomitico. Qui l’organizzazione dovrà dimostrare più coraggio. La soluzione non pare rinunciare a quel tipo di percorsi per timore del maltempo. Un percorso, quello di quest’anno, teso più alla continuità dello spettacolo che non ad alternare sonnacchiosi trasferimenti a picchi adrenalinici. Ormai è così, anche per esigenze televisive: il pubblico non regge più corse divise in due, con le prime giornate da far scorrere via mentre si ronfa nella penombra di un bar sport. Tuttavia questo comporta dispendio fisico e nervoso per gli atleti fin dalle prime tappe, per cui si arriva ai momenti decisivi senza che nessuno abbia più forza per l’impresa epica. 

La conferma ha il nome di Filippo Ganna. Quest’anno è anno olimpico, e Pippo ha la pista in testa. Dalla prossima stagione, se inizierà a mettere nel mirino non solo le cronometro ma anche le classiche tipo Rubaix, potrà forse rilanciare ai vertici il ciclismo azzurro. Un nome solo è un po’ poco, ma a questo per ora ci dobbiamo aggrappare. A questo e un po’ anche a Bernal, che da noi abbiamo accolto ancora ragazzo; lui ricambia col suo amore  per la maglia rosa e con la memoria affettuosa che conserva di Pantani. E ci culliamo, anche se dalla culla è uscito da un bel po’, Caruso. Bello il suo Giro, belli i suoi gesti da capitano per caso, bello lo spirito con cui, ad un età in cui sportivamente si è di solito chiamati ai bilanci, ha rilanciato le sue ambizioni per il futuro. Ciò che appassiona di questa vicenda popolare è il suo aspetto umano, che anche in corsa finisce sempre per affiorare e prevalere. Si gareggia umanamente e, fatto rilevante, si ragiona umanamente a giochi fatti. Un indizio? Riascoltiamoci le dichiarazioni di Caruso, di Bettiol, di Fortunato: in gruppo si parla ancora il dialetto.