Angelino Alfano sente gli angeli suonare l’arpa: «Il discorso di Letta è musica per le nostre orecchie». Daniela Santanché va dritta al cuore delle cose: «Vittoria assoluta di Berlusconi». In realtà però nel Pdl il morale non è poi così alto.

Il dubbio di aver fatto lo stesso errore fatale compiuto da Bersani quando, alla fine del 2011, rinviò elezioni vinte in partenza serpeggia eccome. Non a caso le colombe si consolano ripetendosi che, in fondo, se Berlusconi non ha infilato nella delegazione governativa nessun esponente della sua guardia d’onore, a parte Alfano, è proprio per essere libero di staccare la spina quando vuole. I falchi invece già alzano la posta. Renato Brunetta, che proprio contentissimo non è, non si accontenta dell’impegno di Letta sull’Imu di giugno: «L’importante è che gli italiani non pagheranno l’Imu né a giugno né a settembre e saranno risarciti per il 2012». Di risarcimento, però, Letta non ha parlato.

Ma risarcimento o non risarcimento, nessuno nel Pdl dubita che il passaggio sull’Imu e sul blocco dell’aumento Iva sia un terno secco. Nella prossima campagna elettorale sarà un argomento ancora più potente di quanto non sia stato nell’ultima. Berlusconi rivendicherà il merito di aver abbattuto la tassa più odiata, e chiederà voti per continuare sulla stessa strada.

Solo che la tempistica non è secondaria. Se si votasse tra uno o sei mesi, la carta sarebbe certamente vincente. Tra un paio d’anni le cose potrebbero essere molto diverse. Gli italiani hanno la memoria corta, e lo hanno dimostrato per l’ennesima volta proprio restituendo a Berlusconi una parte dei consensi che nel 2011 gli avrebbero certamente negato.

La carta su cui Berlusconi conta per tenere alto il consenso è la Convenzione per le riforme annunciata da Letta con tanto di data di scadenza: diciotto mesi. Poi, se l’accordo appare ancora in alto mare il governo si dimette e tutti a casa.

Il progetto è pronto: ogni partito sarà rappresentato nell’ennesima bicamerale in proporzione diretta con la sua rappresentanza parlamentare, e ciascuno potrà indicare tecnici e dotti per un terzo della propria quota. Il presidente sarà eletto dai commissari e sembrerebbe di conseguenza quasi obbligatoria la scelta di un nome condiviso dai due partiti maggiori. Ce n’è uno solo. Si chiama Giuliano Amato.

Ieri mattina però Berlusconi ha messo sul piatto la sua candidatura. «Sarebbe bello se il presidente del Pdl guidasse la Convenzione per le riforme», ha detto rivolto all’assemblea dei gruppi parlamentari, fingendo poi di essersi lasciato sfuggire quasi per caso la primizia: «Forse non avremmo dovuto far sapere che vorremmo guidare la Convenzione…».

Ci spera davvero? Improbabile, anche se gli intimi sostengono che invece la candidatura va presa assolutamente sul serio. È vero che Bersani gli aveva offerto precisamente quella carica, però in cambio del semaforo verde per un governo senza Pdl. La situazione è adesso ben diversa, tanto più che al ministero per le Riforme c’è Quagliariello, un esponente del Pdl, sia pure quello in cui Berlusconi ripone la minor fiducia considerandolo troppo vicino a Monti.

Però l’idea che un Pd già allo stremo possa incassare un’altra micidiale mazzata facendo di Silvio Berlusconi il padre della nuova Costituzione repubblicana sembra davvero poco realistica. È più probabile che il Cavaliere miri a comparire come l’alto regista della Convenzione e a condizionarne strettamente l’opera. Sempre di padre della Patria si dovrebbe parlare, e un padre della Patria bisogna guardarlo con un occhio di riguardo anche quando veste i panni dell’imputato a un passo dalla sentenza. Almeno quel tanto da concedergli quello spostamento delle sedi processuali senza il quale i fragili equilibri raggiunti in due mesi potrebbero essere spazzati via in due ore.